Oggi, 2 novembre, entra in vigore la seconda edizione italiana del nuovo rito delle esequie, che sostituisce quella del 1974. La pubblicazione riflette l’impegno della Chiesa ad evitare, da un lato, la spettacolarizzazione mediatica della morte, sempre più frequente, e dall’altro la trasformazione di questo evento in una questione privata.
Lo spiega, nell’intervista di Davide Maggiore, il direttore dell’ufficio nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per le comunicazioni sociali, mons. Domenico Pompili:
R. – Mi pare che il nuovo rito delle esequie risponda alla spettacolarizzazione, spesso riservata ai cosiddetti “vip”, attraverso un incontro ricercato fin dall’inizio con la famiglia del defunto, cioè attraverso una ricerca di contatto che sia il più possibile tempestivo per garantire la vicinanza della Chiesa, e risponde alla privatizzazione attraverso una proposta, scandita in tre tempi, che chiama in causa l’intera comunità cristiana: in primo luogo, nella casa del defunto, poi nella chiesa e nel luogo del cimitero. La liturgia è una dimensione comunitaria che riesce a dare il senso della prossimità della Chiesa e anche a rielaborare il senso di questo drammatico passaggio in una forma ispirata alla Parola di Dio e quindi alla speranza.
D. – D’altra parte, sempre più spesso oggi la morte avviene in contesti come quello ospedaliero, dove la burocrazia si concilia male con il necessario raccoglimento…
R. – In primo luogo, il cappellano, e poi le persone che con lui animano la presenza della Chiesa in ciascun ospedale, ha il compito di garantire quella forma di vicinanza raccolta che aiuta ad elaborare il senso del lutto. Certamente, l’ospedale è un luogo necessariamente più anonimo e – se vogliamo – burocratizzato. Però, credo che sia interesse di tutti, una sorta di bene comune da tutelare, far sì che – ad esempio – le camere mortuarie siano luoghi dignitosi, luoghi nei quali sia possibile anche l’incontro tra le persone che vanno a fare visita al defunto, e non siano semplicemente ripostigli o luoghi segnati, anche da un punto di vista fisico, da disattenzione o approssimazione.
D. – Una caratteristica della nuova edizione del Rito è l’appendice dedicata alla cremazione. Qual è l’importanza di queste puntualizzazioni?
R. – La cremazione, come è noto, è stata accettata dalla Chiesa dal 1963 e tuttavia l’appendice è inserita proprio per aiutare a vivere questo momento che nasce oggi dalle mutate condizioni, soprattutto legate al fenomeno dell’urbanizzazione. Va detto che la Chiesa non incentiva la cremazione, ma la permette. La sepoltura rimane la forma più idonea per dare anche il senso della dignità del corpo, che non è semplicemente un rifiuto da smaltire ma ha profondamente a che fare con l’integrità della persona. E tuttavia, siccome la cremazione è un dato di fatto, la Chiesa non vuole mancare a questo momento che, soprattutto per le persone coinvolte, rappresenta una dimensione difficile da gestire.
D. – La morte, tuttavia, non va vista semplicemente come una fine, ma nel suo legame inscindibile con la risurrezione…
R. – Questo è il cuore del rito delle esequie, che consiste precisamente nella riproposta dell’annuncio del Vangelo della Risurrezione di Gesù Cristo in questo nostro conteso culturale ed ecclesiale mutato. La morte è una cosa profondamente innaturale, perché l’uomo si ribella interiormente a questo esito e certamente la maniera cristiana di intendere la morte è quella definitivamente svelata dalla vicenda di Gesù che, attraverso la sua morte e risurrezione, rappresenta per tutti i credenti la mèta. Nella morte di ogni uomo si realizza, in fondo, una misteriosa comunione proprio con la Pasqua di Cristo che, risorgendo, ha distrutto la morte.
Fonte: Radio Vaticana