“Cerchiamo malati terminali per ruolo da attore protagonista”. Ecco la frase-chiave dell’ultimo spot prodotto dall’associazione radicale Luca Coscioni per la sua campagna a favore della legalizzazione dell’eutanasia. Cari malati terminali, accorrete, partecipate alla nostra battaglia, anzi – come viene detto nella frase successiva con (involontaria?) macabra ironia, “fatevi vivi”.
Che ad ammazzarvi ci pensiamo noi. E nel mucchio, sotto la categoria“malati terminali”, finiscono un po’ tutti, senza nessuna distinzione tra le variegate situazioni che rendono delicatissima e intricata questa materia. Qui si taglia tutto con l’accetta: uccideteli tutti, Dio (anzi, Pannella) riconoscerà i suoi.
(per chi avesse lo stomaco forte, sorbitevi pure il filmatino…) spot dei radicali
Del resto, scrive il giornalista del “Corriere” imbeccato da Cappato, in Italia “c’è poca informazione sul fine-vita”. Siamo perfettamente d’accordo. Sarà per questo che si fa ancora confusione tra rifiuto dell’accanimento terapeutico e eutanasia. Sarà per questo che il filosofo Giovanni Reale, sedicente cattolico, mostrò di fare fatica a comprendere la differenza tra “lasciar morire” (let die), scelta legittima e umana se compiuta in una situazione ormai senza speranza, come nei casi di Giovanni Paolo II e del cardinal Martini, e “far morire” (make die), opzione che consiste invece nel compiere un gesto –somministrare un’iniezione letale o staccare un respiratore – volto a causare, direttamente o indirettamente, la morte della persona.
L’ignoranza, dunque, regna sovrana. A volte, più che di ignoranza si tratta di malafede. Non so di cosa si trattasse nel caso del giudice che prosciolse il medico di Piergiorgio Welby, con la motivazione che accogliendo la richiesta del paziente e agendo deliberatamente per provocarne la morte egli aveva adempiuto a un dovere (ed era per questo non punibile, ai sensi dell’art. 51 del codice penale) e non invece –come suggeriscono la logica, il buon senso, il giuramento di Ippocrate e il precedente iter legale che aveva respinto le richieste di Welby – violato l’art. 579 dello stesso codice, che punisce chiunque “cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”, cioè chiunque si macchi dell’omicidio del consenziente. Figuriamoci, dunque, se qualcuno si azzarderà a perseguire gli autori del nuovo spot radicale per istigazione al suicidio o apologia di reato: del resto, da non giurista mi rendo conto che magari in questo caso non ci sarebbero gli estremi.
Forse per questo, per evitare a qualche altro magistrato l’imbarazzo di dover raccontare bestialità e scavare la fossa persino al diritto positivo, i radicali hanno deciso di uscire dall’ipocrisia.Non si tratta più di concionare in maniera subdola sull’accanimento terapeutico o sul diritto di rifiutare un trattamento sanitario, legittimando le proprie pretese con l’art. 32 della Costituzione e dando spazio alle capziose interpretazioni di qualche giudice. Ora si chiede, puramente e semplicemente, la legalizzazione dell’eutanasia. In realtà loro, avanguardia rivoluzionaria di pochi eletti, lo fanno da sempre, ma– come in ogni gnosi che si rispetti –il popolino va trattato con cautela e così, infatti, hanno fatto fino ad ora i megafoni del pensiero unico dominante. Adesso, dopo anni di strisciante propaganda, esso è quasi pronto ad accogliere la lieta novella.
La posta in gioco, una volta tanto, è molto chiara. Si tratta, come ha commentato l’on. Roccella, del confronto tra chi vuole aiutare a vivere e chi a morire. Noi sappiamo da che parte stare: ce lo indicano la fede, il diritto naturale, un qualche senso di umanità.
Fonte: Campari e De Maistre