Il prossimo 7 ottobre ricorre la memoria della vittoria di Lepanto (1571) con la quale la Lega Santa, appositamente istituita da Papa S. Pio V, fermò la potenza dell’impero ottomano nel Mediterraneo. Il Pontefice attribuì il merito del successo all’intervento della Madonna che, su sua richiesta, era stata pregata dalle Confraternite del Rosario di tutta Europa. Stabilì perciò che in tale data fosse celebrata la festa di Nostra Signora della Vittoria, che Gregorio XIII trasformò poi in festa della Madonna del Rosario, aggiungendo alle litanie lauretane l’invocazione Auxilium Christianorum,
I partecipanti alla battaglia ne lasciarono memoria scritta: “Quando le flotte nemiche giunsero a tiro di cannone i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Giovanni D’Austria (ammiraglio della flotta, ndr) innalzò lo stendardo con l’immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa da Pio V per la crociata. Il vento improvvisamente cambiò direzione. Le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.” (qui)
Uguale e definitiva sconfitta subirono nel 1683, quando le truppe cristiane, convogliate da papa Innocenzo XI, misero fine a due mesi di assedio posto dall’esercito ottomano alla città di Vienna. Riportiamo la cronaca di un testimone: “All’alba del 12 settembre 1683 il venerabile Marco da Aviano, dopo aver celebrato la Messa servita dal re di Polonia, benedice l’esercito schierato, quindi, a Kalhenberg, presso Vienna, 65.000 cristiani affrontano in battaglia campale 200.000 ottomani.” E vinsero. (qui)
Ancor oggi, per decisione di Papa Innocenzo XI, il 12 settembre è dedicato al SS. Nome di Maria, in ricordo e ringraziamento della vittoria e il cappuccino Marco d’Aviano nel 2003 è stato dichiarato beato.
Questi due episodi, passati alla storia, dimostrano come l’intervento di Dio non si faccia attendere quando sotto la guida di un Pontefice o anche di un Vescovo i popoli si rivolgono a Lui con suppliche e preghiere, spiritualmente uniti in quella che la Chiesa chiama Comunione dei Santi. Val la pena di soffermarsi su questo termine che, come spiega il Catechismo (946 e seg.), ha due significati strettamente legati: “comunione alle cose sante”, cioè i beni spirituali (come i sacramenti) e “comunione tra le persone sante ”.
Ciò sta ad indicare che tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in Lui, e questa unione forma la Chiesa, che è divisa in tre stati. Infatti afferma il Catechismo: “Fino a che il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose, alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno purificandosi, altri infine godono della gloria contemplando “chiaramente Dio uno e trino, qual è”.
Si realizza così la comunione della Chiesa del cielo e di quella della terra, come afferma il Magistero, perciò quando noi preghiamo insieme ci uniamo ai Beati, che intercedono per noi, e ai defunti che, hanno bisogno dei nostri suffragi per accelerare la loro purificazione e tutti insieme formiamo il Corpo mistico di Cristo.
La nostra storia ha molti episodi che confermano la potenza della preghiera dei popoli quando sono guidati dai loro pastori perché, come recita il Salmo, è Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo che si è scelto come erede (Sal 33,12).
Sin dall’inizio del cristianesimo innumerevoli sono stati gli interventi del Signore e della S. Vergine quando, in imminenti pericoli o in occasione di sventure, calamità naturali e guerre, il popolo guidato dai suoi pastori si è rivolto a loro con penitenze e suppliche. Il primo di cui si ha memoria e che è particolarmente significativo per la nostra epoca è dovuto all’incrollabile fede di papa S. Gregorio Magno. Raccontano le cronache che nell’anno 590 d.C, mentre egli guidava una processione per impetrare la fine della peste che affliggeva Roma e i dintorni, nei pressi della mole Adriana, che era un imponente mausoleo funebre fatto costruire dall’imperatore omonimo, ebbe la visione di un angelo che rinfoderava la spada e avrebbe interpretato quel gesto come l’annuncio della fine della pestilenza. Ed effettivamente così avvenne.
In ricordo di tale grazia da allora la Mole Adriana è chiamata Castel S. Angelo e ancora oggi nel Museo Capitolino è conservata una pietra circolare con delle impronte di piedi che secondo la tradizione sarebbero quelle lasciate dall’Arcangelo quando si fermò per annunciare la fine della peste.
Si potrebbero portare molti altri esempi di tali interventi divini, tutti ben documentati. Queste testimonianze portano ad una riflessione. Spesso sentiamo dire da coloro che non partecipano alla messa domenicale né ad altre funzioni: “Io credo in Dio, però mi piace andare in chiesa quando non c’è nessuno, così da solo riesco a pregare bene e parlo con Gesù.”
E’ probabile che costoro in realtà facciano dei soliloqui, in cui pongono domande e si rispondono da se stessi, talché possiamo ribattere con assoluta certezza che il rifuggire dal proprio prossimo è un atto di stolta superbia spirituale, non gradito a Dio.
La Chiesa è l’assemblea che in terra costituisce “il germe e l’inizio” del Regno di Dio (CCC 541) ed è stata istituita da Gesù per far partecipare il popolo alla celebrazione eucaristica. Gesù ha insegnato la preghiera del Padre nostro come preghiera da recitare nel segreto della propria camera ma in cui le richieste a Dio sono rivolte in nome di tutti i fratelli (Mt 6, 6-12), così come anche nell’Ave Maria domandiamo alla S. Vergine di pregare per noi, includendo in quel plurale il nostro prossimo. Lo stesso notiamo nella Coroncina della Divina Misericordia dettata da Gesù a S. Faustina Kowalska.
Se leggiamo poi Il Dialogo della Divina Provvidenza di S. Caterina da Siena, dottore della Chiesa, notiamo come Dio le ripeta in continuazione che la preghiera personale gli è gradita solo quando include entrambi questi due requisiti: l’amore per Lui e l’amore per il prossimo.
Il Signore le spiega che nel pregarlo bisogna innanzitutto rivestirsi di amore verso di Lui, ma non di un amore servile e utilitaristico per ottenerne vantaggi, bensì occorre amarlo senza secondi fini. A tal scopo dice alla Santa riguardo a coloro che pregano: “Questo essi devono riuscire a vedere e conoscere: che altro non desidero che il loro bene, nel sangue dell’unigenito mio figlio in cui sono stati purificati dalle loro iniquità. In quel sangue essi possono conoscere la mia verità, questa: che per dar loro la vita eterna li ho creati a immagine e somiglianza mia, li ho ricreati alla grazia col sangue del mio proprio Figlio, facendoli figli adottivi. Ma sino a quando restano imperfetti, essi mi servono solo per propria utilità e allentano l’amore per il prossimo.”
E continua: “Per ottenere la vita eterna non basta fuggire il peccato perché si teme la pena, né basta abbracciare la virtù in considerazione del vantaggio che ne può derivare: dovete invece liberarvi del peccato perché esso dispiace a me, e amare la virtù per amor mio.”
Quindi le insegna come arrivare alla preghiera perfetta: “Io so bene che l’anima dapprima è imperfetta così come è imperfetta la sua orazione. Va bene pertanto se userà l’orazione vocale, quando è ancora imperfetta, per non cadere nell’ozio, ma non deve fare la preghiera vocale senza quella mentale. Ossia mentre pronuncia le parole delle preghiere, deve sforzarsi di levare ed indirizzare la sua mente all’affetto per me, considerando le sue manchevolezze in generale e il sangue del mio Figlio unigenito, dove essa trova l’abbondanza della mia carità e la remissione dei suoi peccati: affinché la conoscenza di sé e dei suoi difetti le facciano conoscere la mia Bontà in sé e le consentano di proseguire nel suo esercizio con vera umiltà.”
Chiarisce che non bisogna però disperarsi dei peccati commessi nel tenerli presenti durante la preghiera, per brutti che siano stati, ma una volta confessati si deve confidare nella sua misericordia, perché uno dei sottili inganni del demonio è quello, con l’apparenza della colpa e del dispiacere del proprio peccato, di condurre alla disperazione della salvezza, e da qui alla pena eterna. Occorre perciò, dice il Signore, afferrare il braccio della sua misericordia.
Poi le spiega: “Ognuno, secondo il suo stato, deve adoperarsi per la salvezza delle anime secondo il principio della santa volontà. Quel che fa con la parola e con l’azione per la salvezza del prossimo è vera preghiera, purché non tralasci di farla al momento debito, per conto suo. Al di fuori delle orazioni dovute, ciò che uno fa è preghiera (Col. 3, 17), sia che operi in nome della carità verso il prossimo, sia per sé, nelle abituali operazioni che rientrano nei suoi doveri quotidiani. Come disse S. Paolo, mio glorioso ambasciatore: non cessa di pregare colui che non cessa di operare bene”.
Sulla necessità di pregare le precisa: “L’anima non può starsene in ozio: o procede nel suo cammino di perfezione, oppure torna indietro.” Nel contempo mette in guardia da alcuni errori, uno dei quali è l’omettere di aiutare il fratello in difficoltà per non interrompere la preghiera, credendo che il far ciò lo offenda mentre, come afferma, l’offesa maggiore è non soccorrere alle necessità del prossimo, perché le spiega: “Sono io infatti a ordinare ogni esercizio vocale o mentale, affinché l’anima giunga a perfetta carità verso di me e verso il prossimo e in questa carità rimanga”
Allo stesso modo, il Signore dice a Caterina: “Taluni essendosi prefissi di recitare un certo numero di preghiere soltanto con la lingua, pur avvertendo che voglio dare loro un’illuminazione che li aiuti a conoscersi con contrizione dei propri difetti, o ponendo innanzi alla loro mente la presenza della mia Verità, pur di portare a compimento quel numero preciso di orazioni trascurano la mia visitazione per scrupolo di coscienza di tralasciare quel che hanno incominciato. Ma non devono fare così, devono abbandonare l’orazione vocale per passare subito a quella mentale e solo dopo, se avranno tempo, la riprenderanno, tranne se si tratti dell’ufficio divino che i chierici e i religiosi sono tenuti e obbligati a recitare (per intero) sino alla loro morte.”
Riguardo alla preghiera, nel commento alla prima lettera ai Tessalonicesi, don Dolindo Ruotolo, mistico napoletano del Novecento, a proposito del monito di S. Paolo pregate incessantemente (1Ts 5,17) considera che questo sembrerebbe impossibile per le occupazioni e debolezze umane ma operando per amore del prossimo ogni azione per Dio è come una preghiera, perché si obbedisce al precetto divino (Mc 12, 28-31).
Scrive: “Operando per amore di Dio ogni nostra azione è lode che si dà. L’anima lo riconosce supremo padrone, lo adora, implora grazie, domanda misericordia. Operando nella carità verso il prossimo, l’anima onora Dio nelle sue creature, ed attira grazie sul prossimo, il che è preghiera, anche se non si parla. Un atto di pazienza nel lavorare, unendosi alla divina volontà, è preghiera, un atto di pazienza e perdono al prossimo è preghiera. Un atto di rassegnazione nel dolore e nelle contrarietà è preghiera.
La vita stessa che declina, quando l’anima è unita a Dio per la grazia, è preghiera di olocausto continuo, perché ogni invadente debolezza del corpo, ogni dolore, ogni malattia è come la fiammella che consumava da parte a parte la vittima sull’altare (si riferisce ai sacrifici che venivano offerti a Dio prima della venuta di Gesù, ndr).
La preghiera più grande è il riconoscere la bontà di Dio in ogni suo dono, perché è dovere della creatura, nel riconoscere i doni di divini, fare atti di ringraziamento al Signore. Il ringraziamento poi attira altre grazie e, come dice la venerabile Anna Caterina Emmerich, libera la creatura che ringrazia dai cattivi influssi dei demoni e delle persone cattive o, come si dice volgarmente, dagli occhi cattivi.
Che ci siano questi influssi – continua don Dolindo – non si può negare e Sant’Alfonso (S. Alfonso Maria de Liguori, teologo e dottore della Chiesa, ndr) li ammette. Da un’anima in disgrazia di Dio si effonde sempre una corrente di male che può nuocere a quelli che in qualunque modo comunicano con lei.”
“La preghiera – dice il Signore a S. Caterina – è un’arma con la quale l’anima si difende da ogni avversario; quest’arma va tenuta con la mano dell’amore e col braccio del libero arbitrio per farsene difesa col lume della santissima fede”.
Paola de Lillo