Il cardinale Carlo Maria Martini è morto da pochi minuti. Nel suo studio accanto alle mura vaticane il cardinale Ruini torna con la memoria al primo incontro con lui. Trent’anni fa. 1982: Ruini era vicario episcopale a Reggio Emilia, Martini era già l’arcivescovo di Milano. «Andai un giorno a Milano – ricorda – per invitarlo a un grande convegno diocesano a Reggio.
Dal primo momento ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una persona di grande nobiltà; di una intelligenza penetrante, caratterizzata da una intensità profonda che dava il timbro alla sua vita.
Un uomo che aveva molti registri; capace non solo dell’approccio dello studioso o di finezza psicologica, ma anche di intelligenza pratica. Uno che sapeva affrontare e risolvere i problemi concreti. La sua figura stessa imponeva rispetto; aveva in sè una grande autorevolezza».
Un anno dopo Ruini divenne vescovo, e poco dopo fu chiamato fra i vicepresidenti del comitato preparatorio del grande Convegno ecclesiale di Loreto, di cui Martini era il presidente. «Mi chiesi se non fosse stato proprio lui a fare il mio nome. Ci vedemmo un’estate sulle Dolomiti, e poi regolarmente alle riunioni del Comitato preparatorio. Nell’86 io divenni segretario della Cei e lo incontravo dunque nel Consiglio permanente».
Di chi era erede, o alunno, Carlo Maria Martini?
Era figlio della Compagnia di Gesù, innanzitutto; poi figlio del Concilio, e, culturalmente, dell’Università Gregoriana e del Pontificio Istituto Biblico. Ammirava molto un teologo e filosofo, Bernard Lonergan, un canadese, e il nome di questo maestro ci ha unito, giacché al Gregoriano io ero stato un affezionato alunno di Lonergan. Lonergan è un grande rappresentante della teologia contemporanea; studioso di Tommaso, ma anche uomo che aveva acquisito in sé il Concilio, e caratterizzato da una profonda comprensione della cultura moderna, in particolare del pensiero scientifico. Un teologo dunque dedito alla declinazione del rapporto tra fede e ragione.
Del Martini arcivescovo di Milano, che ricordo ha? In particolare la Cattedra dei non credenti non lo ha visto quasi nel ruolo di iniziatore nell’ambito di quella che oggi chiamiamo “nuova evangelizzazione”?
È stato in effetti un grande iniziatore nell’ambito della nuova evangelizzazione. Martini però è stato pastore in senso completo e anche concreto; ha lasciato un’orma profonda nella diocesi di Milano, in un certo senso la ha riplasmata.
Martini usava una espressione: «Il non credente che è in me», che rende bene la tensione di molti cristiani oggi: divisi tra la fede ereditata e una cultura dominante che tende a negarla.
Questa parole indicano qualcosa che ci accompagna fino all’ultimo giorno, perché la tentazione contro la fede è sempre possibile. Santa Teresa di Lisieux prossima alla morte fu tentata da un materialismo radicale. Questa espressione dice dunque di qualcosa di molto forte e vero: non siamo mai definitivamente consolidati nella fede. Il che non significa negare la distinzione fra il credere e il non credere. La differenza invece è profonda: con Dio o senza Dio, infatti, cambia tutto.
Su temi etici come fecondazione artificiale e unioni omosessuali, Martini sembrava più aperto alle ragioni di certa cultura laica. Avete avuto un dialogo, o magari uno scontro?
Abbiamo avuto all’interno del Consiglio permanente della Cei un dialogo amichevole e a più voci, mai uno scontro. Non sono mai emerse del resto divergenze profonde.
Negli ultimi anni però il cardinale Martini ha espresso pubblicamente posizioni chiaramente lontane dalle sue e da quelle della Cei.
Non lo nego, come non nascondo che resto intimamente convinto della fondatezza della posizioni della Cei, che sono anche quelle del magistero pontificio e hanno una profonda radice antropologica
Ora qualcuno forse cercherà di fare del cardinale un alfiere del rifiuto dell’accanimento terapeutico…
L’accanimento terapeutico è respinto anche dalla Chiesa. Martini è stato un grande figlio della Chiesa; cercare di giocare la sua eredità contro di essa sarebbe una operazione assai misera.
In uno degli ultimi incontri pubblici a Milano, Martini disse di essersi «riappacificato con la morte» quando aveva capito che «senza la morte non faremmo mai un atto di piena fiducia in Dio»; la morte dunque come “affidamento totale”.
La morte certamente è l’affidamento totale, il «caso serio» della fede, come scrisse Hans Urs von Balthasar. Per questo nell’Ave Maria diciamo: «Prega per noi adesso e nell’ora nostra morte». Il cardinale Martini ha espresso questa ultima verità: che senza Dio non c’è vita. Solo in Lui si concentra nell’ultima ora la speranza dell’uomo.
Sembra che abbia chiesto che nelle ultime ore gli fossero lette le Beatitudini.
Le Beatitudini, certo: il cuore del Vangelo, il sigillo del cristianesimo, e anche della sua infinita speranza.
Marina Corradi
Fonte: Avvenire