Il Natale riscalda il cuore anche di chi non frequenta più la Chiesa. Come scriveva, nella “Storia dell’idea d’Europa”, il laico Federico Chabod “non possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche di culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra noi e gli Antichi… è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli ‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo”.
Stessi concetti del papa laico Benedetto Croce che, nel 1942, scriveva “Perché non possiamo non dirci cristiani” osservando: “Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto”.
Essere nati dopo Gesù significa trovare dovunque la sua luce, significa nascere con una dignità umana e una libertà che non sarebbero stati immaginabili senza di lui. Per non dire dell’eredità cristiana di bellezza, storia, cultura e carità di cui godiamo, soprattutto se si è nati in Italia.
C’è al cuore di tutto la commozione per la figura di Gesù che tutti riconoscono sublime e inarrivabile.
Molti ancora si ritroverebbero nelle parole semplici di Enzo Biagi: “Gesù ha detto cose che a tutt’oggi sono insuperabili. E credo che nessuno abbia conosciuto l’uomo come lui. Gesù è una figura misteriosa, difficile da spiegare solo con l’umano. Regge da 2000 anni. Non vedo paragoni in giro”.
Un grande scrittore ebreo, Franz Kafka, interpellato da un amico su Cristo, restò un attimo in silenzio, chinò il capo e disse: “È un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi”.
Anche il laico Albert Camus accusava il colpo: “Io non credo nella risurrezione però non posso nascondere l’emozione che sento di fronte a Cristo e al suo insegnamento. Di fronte a lui e di fronte alla sua storia non provo che rispetto e venerazione”.
Ci sono tutti questi sentimenti nella collettiva celebrazione del Natale che in questi giorni si vede nelle strade delle città e dei paesi, che unisce credenti e non credenti.
Si potrebbe perfino dire che c’è più religiosità cristiana nel bistrattato “Natale consumistico” – pieno di luci, regali e buona tavola – che in tanti sermoni clericali, fatti da politicanti carichi di recriminazione, di faziosità ideologica e rancore (ossessionati in particolare da Salvini, “reo” di ricordare l’identità cristiana del nostro Paese).
Festeggiare con luci colorate – come fanno molti – è infatti ricordare e accendere sulla strada di tutti la Luce che, a Betlemme, è entrata nel nostro mondo tenebroso.
E i regali? La “cultura del dono” – come la chiama Benedetto XVI – è entrata nel mondo dalla grotta di Betlemme quando Dio ha donato se stesso all’umanità, quindi ha donato tutto, venendo fra noi.
E poi il pranzo, il mangiare e il bere, la festa: “Esultiamo! Perché non vi è posto per la tristezza dove si celebra il Natale della vita”, diceva papa san Leone magno.
Potrà stupire, ma è stato soprattutto san Francesco d’Assisi a plasmare questo modo popolare di festeggiare il Natale che oggi – da certi pulpiti – viene sprezzantemente squalificato come “consumistico”.
Il santo poverello non ha solo inventato il presepio – che del nostro Natale è il centro – ma anche l’idea del dono natalizio, perché per san Francesco – scrive Chiara Mercuri – “il Natale deve essere il giorno della gioia e dell’abbondanza per tutti. Solo se lo sarà per tutti, allora sarà Natale”. Così – conclude la Mercuri – “ognuno dovrà sforzarsi in questo giorno di essere ‘il Natale’ di qualcun altro, senza dimenticare nessuno, nessuna creatura vivente”.
Infatti – si legge nella “Compilatio Assisiensis” – san Francesco “voleva che a Natale ogni cristiano esultasse nel Signore e che per amore di Lui, il quale ha dato a noi tutto se stesso, fosse largo e munifico con slancio e con gioia non solo verso i poveri ma anche verso gli animali e gli uccelli”.
Quel giorno sulla povera tavola del convento – scrive la Mercuri – arrivano “cibi ricchi, rari, di solito assenti dalla mensa dei frati, come la carne, i formaggi stagionati, il vino, l’olio, il lardo e la frutta fresca. Mendicanti, contadini, medici, notai, nobili si uniranno alla mensa dei frati per festeggiare con loro, e le donne faranno portare ai frati e ai poveri che gli vivono accanto torte di mandorle e miele, mostaccioli, frittelle cosparse di acqua di rosa, rotoli di pasta dolce ripieni di mele, di uva, di noci e cannella, e biscotti all’anice e pan pepato”.
Insomma, il nostro modo di vivere il Natale è quello di san Francesco che nasceva dalla sua commozione per Dio che si fa uomo, nella grotta di Betlemme.
È quel Gesù che affascina perfino i nemici più acerrimi del cristianesimo. Friedrich Nietzsche, per esempio, un giorno confessò: “(Gesù) ha volato più alto di chiunque altro”.
Ed Ernest Renan scrisse che “Gesù è l’individuo che ha fatto fare alla sua specie il più grande passo verso il divino”, “Gesù è la più eccelsa di quelle colonne che indicano all’uomo donde venga e dove debba andare. In lui si è condensato tutto ciò che vi è di buono e di elevato nella nostra natura… Gesù non sarà mai superato… tra i figli dell’uomo non è mai nato uno più grande di Gesù”.
Sorprendenti anche le parole su Gesù del giovane Karl Marx: “l’unione con Cristo dona un’elevazione interiore, conforto nel dolore, tranquilla certezza e cuore aperto all’amore del prossimo, ad ogni cosa nobile e grande, non già per ambizione né brama di gloria, ma solo per amore di Cristo, dunque l’unione con Cristo dona una letizia che invano l’epicureo nella sua filosofia superficiale, invano il più acuto pensatore nelle più riposte profondità del sapere, tentarono di cogliere; una letizia che innalza e più bella rende la vita”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 24 dicembre 2019
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