« Sanremo-Marocco » di Marcello Veneziani

MahmoodMa se si fosse chiamato Michele, se fosse stato perdutamente italiano, se il suo genere musicale non fosse stato il Marocco pop, come lui stesso lo definisce, Mahmud o Mahmood avrebbe vinto Sanremo? Non sono un esperto di canzoni, non seguo Sanremo, non pretendo di giudicare una canzone. E trovo Mahmud un ragazzo simpatico, e probabilmente un bravo cantante.

Ma se la giuria popolare aveva indicato un altro cantante, se la platea di Sanremo è insorta per il verdetto, se i mass media davano per favorite altre canzoni, se i critici non avevano ritenuto che la canzone del ragazzo italo-egiziano svettasse sulle altre, allora mi chiedo: qual è il valore aggiunto, la ragione decisiva del premio a Mahmud?

È il messaggio, come già hanno cominciato a dire i media, ossia premiare un ragazzo di nome Mahmud, metà italiano e metà egiziano, il suo stile canoro arabo, il suo genere Marocco-pop. Fosse stato il più bravo, il migliore, nulla da eccepire. Ma è il messaggio che giustifica il premio.

Del resto che quel ragazzo, nel giro di due mesi, con sua somma sorpresa, come ha candidamente detto ai microfoni, vinca prima Sanremo giovani e poi Sanremo-Festival, non vi fa capire che la motivazione determinante sia proprio quella?

Quel messaggio è sempre – ma guarda un po’ – una prevedibile polemica col tempo di Salvini e gli sbarchi negati dei migranti.

Oltre che global, Mahmud è italiano a tutti gli effetti, ha tutti i diritti degli italiani; non dovrebbe essere né discriminato né favorito per la sua origine o per il suo mix.

Non voglio aggiungere altro su Sanremo, se non gli auguri più sinceri al vincitore. Però lasciatemi dire che questa furbizia di usare anche un festival canoro, anzi il festival della canzone italiana, per lanciare il solito messaggino e riprendere la solita menata global, mi pare un tantinello meschino, oltre che scontato, risaputo, e anche un po’ ruffiano, moralista e conformista.

Invece ancora una volta ha vinto il messaggio che gli italiani migliori sono sempre i meno italiani e il più possibile stranieri o ponte con gli stranieri.

C’è chi sventola la bandiera francese e tifa perfino per Macron, detestato in patria, pur di fare un dispetto a Salvini e agli italioti.

C’è chi parteggia per Juncker e Moscovici, per il Fondo Monetario e per tutti quelli che vogliono penalizzarci, avviare procedure d’infrazione, farci passare i guai.

E c’è chi è dalla parte degli immigrati clandestini qualunque cosa facciano. Essi ritengono gli sbarchi un imperativo categorico a cui non possiamo sottrarci e hanno questa strana idea del diritto: chiunque decida di venire a vivere da noi ha diritto a farlo e non ha bisogno nemmeno del passaporto.

Il suo desiderio coincide col suo diritto. I nostri diritti, invece, coincidono col nostro dovere di accoglierli. Benvenuti a Bergoglia, un tempo chiamata Italia.

In questo contesto capite bene perché si premia un cantante che evoca il mondo arabo e il melting-pot, anziché un altro cantante tristemente nostrano.

E la cosa non riguarda solo la canzone, come ben sappiamo; altri premi nel mondo del cinema e della letteratura e ogni altro campo, vedono ormai vigente un solo Codice: priorità a chi è nero, arabo, rom, oppure gay, lesbica, trans, discendente alla lontana di deportati ma non dai gulag comunisti, e altri ancora, oltre che i disabili.

Ora, vi prometto, non farò più polemica coi premi attribuiti a tutto quanto odori di politically correct, di razzismo etico, di valorizzazione oltre ogni valutazione onesta delle categorie ideologicamente protette.

Anzi, visto che ci siamo, desideroso di rispettare le idee o ideologie altrui, volendo cercare di conciliare la realtà con la sua rappresentazione, le cosiddette élite con la plebe, il merito con la “correttezza”, suggerisco di adottare d’ora in poi un metodo rivoluzionario.

Lo chiamerò il Manuale Spike Lee, variante nero-americana del Manuale Cencelli, quello che veniva usato da noi per la lottizzazione. Prende il nome dal regista nero che ovunque, nei premi cinematografici come nelle assunzioni, nell’alta moda e in ogni altro ambito, chiede la quota obbligatoria di neri, indipendentemente dal merito e dalla capacità.

Ecco la proposta: d’ora in poi ogni festival musicale, ogni rassegna cinematografica, ogni premio letterario e artistico, ogni concorso di Miss, ogni riconoscimento pubblico sia sdoppiato in due sezioni: un premio lo attribuiamo al tapino che lo merita, e un altro premio lo attribuiamo a chi esprime il politically correct.

Ovvero a chi appartiene alle categorie protette di cui sopra o tratta temi inerenti le stesse categorie, con animo “correct”. Poi magari la fabbrica dei media valorizzerà più questi ultimi.

Ma salvate per favore quella piccola, valorosa categoria di chi riceve premi per canzoni, film, libri, opere d’arte, di moda, perfino Nobel, o di che volete voi, solo perché lo hanno meritato.

Chiedo troppo, è razzismo ammettere almeno due criteri selettivi? Premio doppio per accontentare tutti.

MV, La Verità 11 febbraio 2019

 

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