Proprio mentre Lega e Cinque Stelle si preparano a spartirsi le direzioni delle reti e dei tg Rai, secondo il più classico dei copioni, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha fornito gli ultimi dati, riferiti a settembre, relativi allo spazio riservato alle singole forze politiche durante le varie edizioni dei telegiornali. La prima impressione scorrendo le cifre relative alla presenza dei partiti nel Tg1 è che la tv di Stato è rimasta ferma a prima delle elezioni del 4 marzo.
Nel mese di settembre, il telegiornale della rete ammiraglia ha dedicato un terzo dello spazio (il 33,58% per la precisione) al Pd, un partito che è andato sotto il 20% nelle urne di sette mesi fa.
Anche Forza Italia è uscita con le ossa rotte da quella prova elettorale, ma, nonostante questo, il mese scorso ha ottenuto il 26,31% del minutaggio complessivo del Tg1.
La Lega, che nei sondaggi vola e viene ormai accreditata di un consenso superiore al 30%, ha ottenuto il 14,14% dello spazio e i Cinque Stelle, premiati dall’elettorato il 4 marzo come primo partito, con circa il 33% dei consensi, hanno ricevuto solo il 12% dello spazio.
Il rimanente 15% di visibilità televisiva sul Tg1 risulta più o meno equamente suddiviso tra tutti gli altri partiti, da Fratelli d’Italia a Liberi e Uguali.
Si tratta di dati a dir poco sorprendenti, che dimostrano diverse cose. Anzitutto che i partiti sconfitti alle elezioni esercitano ancora un forte condizionamento sulla linea editoriale della tv di Stato.
Fin dagli anni Settanta, tutte le maggioranze politiche hanno occupato la Rai e orientato la programmazione della tv pubblica interpretando il principio costituzionale del pluralismo dell’informazione come lottizzazione degli spazi e delle opportunità, anziché come massima apertura possibile alle opinioni e ai punti di vista di tutti.
Ora il vento sta per cambiare e presto le nomine targate giallo-verde riequilibreranno le cose.
Ma il meccanismo resta sempre lo stesso: chi vince le elezioni e va al governo mette le mani sulla tv pubblica, come se fosse cosa sua e non un servizio universalmente destinato a tutti i cittadini e gli abbonati, al di là del colore politico.
La seconda considerazione, in parte complementare, è che neppure la riforma della Rai, approvata tre anni fa e ora entrata a pieno regime, ha modificato l’andazzo spartitorio.
Nonostante la valorizzazione di una figura manageriale quale quella dell’amministratore delegato, rimangono forti e decisivi i condizionamenti della politica, tanto che anche in questi mesi, dopo la nomina del consiglio d’amministrazione, è partita la solita girandola di nomi di papabili direttori di rete e di tg, sulla base del Manuale Cencelli e delle appartenenze o vicinanze dell’uno e dell’altro a quello o quell’altro partito politico.
Tutto questo impedirà anche alla Rai di questo triennio di essere imparziale, equilibrata, super partes e autonoma dalla politica.
La terza considerazione è che, nonostante continuino ad avere complessivamente oltre il 60% degli spazi di visibilità sul Tg1, Pd e Forza Italia non riescono a frenare l’emorragia di voti. Se si votasse oggi, stando ai sondaggi più accreditati, quei due partiti prenderebbero rispettivamente il 18 e il 7%, contro il 33% della Lega e il 30% dei Cinque Stelle.
Ciò significa che la tv non è più in grado di spostare voti e che la gente è molto più influenzata dai social e dalla Rete in generale. Già negli anni del berlusconismo rampante, chi gestiva la Rai dopo aver vinto le elezioni, nella tornata successiva registrava una sconfitta nelle urne e perdeva la guida del Paese.
Oggi, con il dominio del web, il peso specifico dei telegiornali nel processo di formazione delle opinioni sembra essersi ridotto ulteriormente.
Tutte queste valutazioni ispirano una riflessione conclusiva. La regolamentazione della propaganda politica appare ormai anacronistica.
La legge sulla par condicio, approvata nel 2000 quando l’importanza delle televisioni nelle diete mediatiche degli italiani era molto superiore a quella di oggi, andrebbe profondamente modificata, in ragione della galoppante multimedialità nella fruizione delle informazioni.
Appare alquanto superata l’idea del bilancino che misura il minutaggio delle presenze in tv, secondo una concezione quantitativa che mortifica la libertà d’espressione e di propaganda politica.