i giornali, nella quasi totalità, sono schierati contro il nascente governo e sparano a palle incatenate, da settimane, ancor prima della sua formazione.
Dov’è finita l’obiettività? E’ il pregiudizio universale. Non si era mai visto nulla del genere in tutta la storia italiana (la stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti contro Trump).
Appare chiaro che i giornali rappresentano le élite, un certo establishment (nazionale e internazionale) che non vuole saperne di piegarsi alla logica della democrazia e della sovranità popolare. Lorsignori vogliono continuare a comandare in barba agli interessi generali del Paese.
E’ normale? A me non sembra. La maggioranza degli italiani si riconosce nel nuovo esecutivo e se tutta la stampa è contro significa che c’è un grave scollamento fra giornali e paese reale.
Uno scollamento che falsa la percezione dei fatti e impedisce quel libero confronto delle idee che connota una sana democrazia: un pensiero unico imposto dal Giornalista Collettivo è la tomba del pluralismo.
Questo fenomeno si aggiunge all’alto tasso di faziosità ideologica e conformismo del mondo dei media, che in Italia è luogocomunista da sempre, quindi ostile alla novità del cosiddetto “governo populista”.
Non lo dico io. Due studiosi, Luigi Curini e Sergio Splendore, dell’Università Statale di Milano, sul sito (degli economisti di sinistra) lavoce.info pubblicarono tempo fa uno studio intitolato: “Ma i giornalisti sono troppo di sinistra?”
La loro ricerca partiva dai sondaggi periodici di Eurobarometro da cui emergeva che negli ultimi 15 anni un cittadino su due dava un giudizio negativo sulla stampa. Da noi il livello di fiducia verso i giornali si attesta sul 43 per cento: quattro punti percentuali meno del resto d’Europa, nel medesimo periodo.
Non a caso in questi quindici anni i giornali in Italia hanno perso circa il 60 per cento dei lettori. Un tracollo.
Si possono dare varie spiegazioni. Ma Curini e Splendore ne suggeriscono una che riprende l’ipotesi formulata venti anni fa da Thomas E. Patterson e Wolfgang Donsbaghnel saggio “New decisione: Journalists as partisan actors”, uscito su “Political Communication”, che studiava “le conseguenze relative alla possibile ‘discrasia’ tra credenze politiche e ideologiche dei giornalisti rispetto ai loro lettori”.
I due studiosi hanno scoperto che l’autocollocazione ideologica “dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani in generale”.
Questa curvatura ideologica insieme all’elitarismo esterofilo della classe intellettuale dominante, a mio avviso, riempie i giornali italiani di disprezzo verso il paese reale considerato immaturo, volgare, levantino e razzista.
Più che raccontare e spiegare la realtà, i giornali riflettono il mondo parruccone di salotti e accademie cercando di “orientare” il popolo con la noiosa e soffocante boria pedagogica della casta intellettuale di sinistra che detesta la plebe, che condanna i suoi sentimenti come “populismo” e la demonizza perché vota senza obbedire a lorsignori.
E’ chiaro che i giornali – ideologicamente di sinistra e materialmente vicini ai centri di potere del grande capitale – sentono come estranea e insopportabile l’Italia che in questi giorni ha fatto un patto per governare il Paese.
Come dice Giulio Sapelli, con Lega e M5S il popolo degli abissi (periferie, disoccupati, dimenticati, meridione devastato dalle politiche Ue volute dalla Germania) si è saldato con la migliore borghesia italiana, quella della piccola e media impresa che è il motore vero del paese. E pure con la cultura identitaria.
Sono mondi estranei ai salotti finanziari e alla casta di sinistra (che preferisce l’immigrato al povero italiano). Sono mondi che hanno ancora un orgoglio della loro identità italiana (trattata con disprezzo dalle élite) e che, su questa linea sovranista, hanno saputo allearsi col miglior pensiero economico nazionale.
Dunque la stampa luogocomunista bombarda questo governo. E pure quella di centrodestra manganella Salvini accusandolo di tradimento, quando in realtà fu Berlusconi (con Forza Italia) a dividere il centrodestra appoggiando Monti e facendo il governo Letta col Pd. Salvini invece ha chiesto il “placet” agli alleati del centrodestra.
Si è usato di tutto contro Salvini. Si è detto che ha preso in giro Di Maio e il paese per due mesi perché in realtà temeva di andare a governare e i fatti hanno smentitoquesta malignità.
Addirittura gli stessi ambienti forzisti che nel 2011 parlarono di golpe dello spread hanno invocato la condanna del governo da parte dello spread: a parte l’incoerenza si dà il caso che spread e mercati, appena insediato il governo, vadano benissimo.
Quel mondo piddino che ha terremotato l’economia italiana governando fino ad ora (fornisco i dati drammatici nel mio ultimo libro) è arrivato ad accusare di “sfascio” Salvini e Di Maio che ancora non hanno mai governato.
Ti confesso che, in questo quadro, mi sorprende la scelta di “Libero” di cantare in questo coro. Una cosa per me incomprensibile visti i molti temi che questo governo ha rimesso al centro e che stanno a cuore ai lettori di questo giornale: lo stop all’immigrazione, l’abbassamento delle tasse, la difesa degli interessi italiani in Europa.
Un giornale libero per definizione come questo dovrebbe giudicare un governo dai suoi atti, non condannarlo preventivamente.
Soprattutto dopo che, da queste colonne, ampie aperture di credito furono date anche al governo Pd di Renzi che è stato un flagello per l’Italia (mi riferisco in particolare all’appoggio al suo referendum di riforma costituzionale).
Credo che un governo tanto odiato dall’Italia della boria, dalla cultura sinistrata, meriti di essere guardato con simpatia o almeno di non essere bocciato prima della nascita.
Antonio Socci
(da “Libero”, 3 giugno 2018)
PS Vittorio Feltri ha gentilmente risposto a questa mia lettera aperta su “Libero”. Mi soffermo in particolare su un punto per il quale chiede una mia risposta. Scrive: “Spiegami tu… se è normale ridurre il debito pubblico più alto d’Europa, incrementando in misura folle la spesa anziché tagliandola”.
Rispondo a Feltri per punti (questo è proprio uno degli argomenti che ho esplorato nel mio ultimo libro “Traditi, sottomessi, invasi”).
Primo: il debito pubblico di per sé, per un paese sviluppato come l’Italia, non sarebbe un problema se avesse mantenuto la sovranità monetaria: la prova è il Giappone, che ha un debito molto più alto del nostro (224 per cento in rapporto al pil).
La controprova? Ecco un elenco di paesi con rapporto debito pubblico/pil bassissimo: Afghanistan (7,6 per cento), Algeria (20 per cento), Turkmenistan (24 per cento), Nepal (27 per cento), Cambogia (28 per cento), Bulgaria (29 per cento), Guatemala (30 per cento). Secondo voi sono più ricchi e prosperi questi stati e i loro cittadini o il Giappone e i giapponesi?
Secondo: finora due sono state le strade proposte per ridurre il debito. La prima (già sperimentata) è quella “lacrime e sangue”, d’ispirazione tedesca, applicata dal governo Monti: il taglio drastico della spesa pubblica.
Il risultato? Una mazzata sull’economia e sul pil e un aumento del debito pubblico in termini assoluti (136 miliardi di euro) e in percentuale sul Pil (il debito è passato dal 119 per cento al 126,5 per cento del pil).
Il secondo modo (proposto da questo neonato governo) è quello che s’ispira a Keynes: aumentare la spesa pubblica in investimenti (sforando il parametro del 3 per cento di Maastricht) in modo da far aumentare il Pil (la ricchezza e il lavoro), diminuendo così il rapporto percentuale del debito sul prodotto interno lordo.
La prima strada si è già dimostrata sicuramente sbagliata e disastrosa. La seconda (se si guarda alla storia) può essere quella giusta.
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