Su “Il Sole 24 ore”, non sul vecchio settimanale satirico “Cuore”, l’altroieri, è comparso un articolo di Enrico Verga che – a suo modo – è emblematico di un’epoca. Questo era il titolo: “Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?”
Il fatto stesso che nel 2018 – sul quotidiano di Confindustria – si possa porre una domanda del genere mostra dove ci hanno portato 25 anni di questa globalizzazione, giustamente contestata – anche a Davos – da Donald Trump il quale intende difendere i lavoratori americani e il ceto medio che da essa sono rimasti schiacciati.
Quell’articolo del “Sole” fa capire dove ci hanno portato 25 anni di questa Europa di Maastricht, con le sue “riforme” rigoriste e le (presunte) modernizzazioni.
Mostra in che baratro ci hanno buttato diciotto anni di euro e di sottomissione degli stati e dei popoli all’onnipotente arbitrio dei mercati.
IL SOLE (24 ORE) DELL’AVVENIRE
L’articolo del “Sole” stava nella pagina “Econopoly. Numeri idee progetti per il futuro”. Alberto Annichiaricolo ha presentato sottolineando che “nei nuovi lavori si stanno creando tipologie di relazione che mettono i dipendenti davanti a una dura realtà: salari molto bassi a fronte di performance richieste molto elevate. Non di rado sui social si legge ormai una parola che inquieta: schiavitù. Un’esagerazione?”.
La parola passa appunto a Verga, il quale ricorda che negli ultimi decenni si è affermata “una politica aziendale strutturata nell’esternalizzare tutto il possibile”.
A questo proposito l’autore scrive: “mi domando se non sarebbe opportuno rivalutare la schiavitù (nella sua interezza, non parlo solo di frustate) e considerare l’opportunità economica di reintrodurre tale soluzione contrattuale nell’economia moderna”.
Sui social c’è stato subito chi – dalla sinistra marxista – si è fermato al titolo e ha suonato l’allarme: “Attenzione: i giornali padronali ricominciano a discutere seriamente dell’inimmaginabile: ‘Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?’ ”.
Ma cosa dice Verga? L’autore ricorda quanto la schiavitù è antica e quanto sia stata usata fino a tempi recenti, pure in paesi democratici. “Se sulla carta la schiavitù, nella sua accezione più brutale, è stata bandita” scrive Verga “così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in buona parte del mondo”.
Probabilmente l’articolista si riferisce qui ad alcuni Paesi del Terzo Mondo e anche a certi grandi paesi asiatici in grande crescita. E pure a certe aree di economia sommersa, in Italia, dove gli immigrati vengono sfruttatifuori da ogni legalità.
Anche questi sono tutti fenomeni legati alla pessima globalizzazione iniziata negli anni Novanta (compresa l’immigrazione incontrollata che ha l’effetto di abbassare sia le retribuzioni sia le garanzie sociali dei lavoratori).
Ma Verga nel suo articolo intende occuparsi non di queste patologie drammatiche, bensì della fisiologia normale e legale dell’economia attuale.
Anzitutto riporta l’opinione legale di uno specialista, Stefano Sutti, il quale ricorda che “per la cultura giuridica delle istituzioni internazionali è a rischio di essere considerato in sostanza schiavitù più o meno qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario, o magari dalla fornitura ‘free lance’ di servizi puntuali da un individuo a chi occasionalmente ne voglia ingaggiare i servizi”.
TIRANNIA DEL MERCATISMO
Sutti precisa che tutto questo prescinde totalmente dalla misura della retribuzione “che si ritiene sempre più comunemente debba essere determinata dal mercato” e sappiamo “che il mercato, grazie anche (localmente) ad un cartello spontaneo di datori di lavoro e (globalmente) alla concorrenza internazionale e al cosiddetto dumping sociale da parte di paesi dove comunque il costo della vita è molto inferiore, possa assestarsi al di sotto del livello di sussistenza per il lavoratore interessato e le persone che da lui dipendano”.
Tradizionalmente questa situazione era evitata da “legislazione sociale e contrattazione collettiva”, ma “tali strumenti restano sostanzialmente spuntati rispetto, invece, alla globalizzazione”.
Così – mentre nelle economie tradizionali (come l’Italia fino agli anni Novanta) – il singolo lavoratore per l’azienda era considerato “un capitale da proteggere” e ciò stabiliva un reciproco legame di fedeltà, invece “in una realtà di mercato perfetto” spiega Sutti “questo non pone particolari problemi al datore di lavoro che sia in grado di rimpiazzare prontamente le risorse umane di cui ha bisogno, ma lo disincentiva naturalmente ad investire nella loro sopravvivenza, sviluppo professionale, benessere, fedeltà”.
PARTITE IVA SCHIAVISTICHE
Di fronte al quadro tracciato da Sutti, Verga afferma che “già si può evincere un potenziale scenario di schiavitù laddove non sia presente un contratto normato e ben strutturato. Di fatto si può suggerire che già oggi, in Italia, le partite IVA siano sottoposte a rischio di schiavitù”.
Mi pare che il ragionamento di Verga sia svolto tutto sul filo del paradosso, ma consideriamo l’“esternalizzazione dei costi spinta all’estremo” che è ritenuta “uno dei grandi successi della società moderna”.
Ci sono milioni di italiani con partita IVA che di fatto non sono (tutti) imprenditori come potrebbero credere, ma spesso solo lavoratori non garantiti: “le partite IVA infatti non hanno giorni di vacanza pagati, non hanno malattie pagate, i costi degli strumenti elettronici (cellulare, computer) sono a loro carico”.
Inoltre “non vi sono certezze per il futuro, e il costo-ora tende, a volte, a decrescere… Non si dimentichi inoltre il costo della tassazione, che viene ad aumentare”.
Verga osserva a questo punto che – ovviamente evitando frustate e violenza – la schiavitù nell’impero romano dava almeno delle garanzie: “uno schiavo aveva diritto a un alloggio, cure mediche, vitto. Molti schiavi ricevevano formazione”.
Certo, non è il ritorno all’antico, con fruste e catene, che viene propugnato, casomai l’esempio di “alcune società straniere che già oggi danno una serie di benefici”, ma “ovviamente lo schiavo dovrà concedere la sua totale disponibilità”.
La lettura di questo pungente articolo – a mio avviso – dovrebbe indurre a imboccare la via opposta, quella che gli Stati Uniti hanno preso con Trump: basta con questa globalizzazione, proteggere il nostro lavoro e il nostro interesse nazionale. L’alternativa è fra gli Usa di Trump che rifioriscono e l’UE che sprofonda.
LA LEZIONE DEL MONACHESIMO
Un’ultima osservazione. L’articolo di Verga iniziava così: “ ‘Ogni progresso della civiltà è nato sulle spalle degli schiavi’, spiega il creatore di replicanti nella recente pellicola Blade Runner 2049. È solo fantascienza? No, è la semplice verità”.
Dissento. Se è vero che la schiavitù era praticata dovunque ed era ritenuta naturale, a un certo momento della storia ha fatto irruzione una novità dirompente: il cristianesimo.
In totale controtendenza rispetto al mondo ha portato alla progressiva sparizione della schiavitù e addirittura alla nobilitazione del lavoro manuale un tempo ritenuto appannaggio degli schiavi e – dal monachesimo benedettino – elevato addirittura al livello della preghiera (Ora et labora).
Come scrive Thomas E. Woods nel libro “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli) proprio la schiavitù era stata disastrosa per l’economia in quanto “il mondo dell’antichità classica”, potendo contare su di essa, “non aveva adottato in alcun grado significativo la meccanizzazione per uso industriale”.
Il monachesimo cristiano invece – per fare a meno del lavoro schiavistico – realizzò una vera e propria rivoluzione tecnologica e industriale con invenzioni e sistemi produttivi innovativi che posero le basi della rinascita agricola, finanziaria e industriale dell’Europa. Dimostrarono così che il vero progresso stava nello scommettere sull’ingegno umano, anziché sul lavoro schiavistico.
Antonio Socci
Da “Libero”, 28 gennaio 2018
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