Sull’Italia il 12 dicembre scorso si è abbattuto un uragano di classe 5. Stiamo ovviamente parlando della legge sull’eutanasia. Eppure per molti in casa cattolica è sembrato solo un venticello primaverile e per altrettanti addirittura un brezza piacevole che ha portato refrigerio nelle corsie d’ospedale dove regnano medici tiranni e pazienti ammanettati al dolore senza scampo.
Chi ha capito che invece siamo di fronte ad una legge di eccezionale gravità pari forse solo alla legge sull’aborto sono stati in pochi. Tra questi Don Carime Arice, superiore generale del Cottolengo, che ha detto chiaro e tondo che questa è una legge intrinsecamente ingiusta e che tutti i medici del Cottolengo si guarderanno bene dall’applicarla.
Queste le sue parole: “Noi non possiamo eseguire pratiche che vadano contro il Vangelo, pazienza se la possibilità dell’obiezione di coscienza non è prevista dalla legge: è andato sotto processo Marco Cappato che accompagna le persone a fare il suicidio assistito, possiamo andarci anche noi che in un possibile conflitto tra la legge e il Vangelo siamo tenuti a scegliere il Vangelo.
Di fronte ad una richiesta di morte la nostra struttura non può rispondere positivamente. Attualmente l’obiezione di coscienza non è prevista per le istituzioni sanitarie private, però io penso che in coscienza non possiamo rispondere positivamente ad una richiesta di morte: quindi ci asterremmo con tutte le conseguenze del caso”.
La legge approvata martedì – il martedì più nero che abbia visto l’Italia da molti anni a questa parte – non prevede la facoltà di appellarsi all’obiezione di coscienza.
Ma la legge morale invece sì. Anzi impone di obiettare, ossia di disobbedire a comandi ingiusti.
Tommaso D’Aquino nella Somma Teologica è esplicito sul punto: “Se quindi la legge scritta contenesse qualche cosa di contrario al diritto naturale, sarebbe ingiusta e non avrebbe la forza di obbligare” (II-II, q. 60, a. 5, ad 1); “le leggi possono essere ingiuste, perché contrarie al bene divino. […] E tali leggi in nessun modo si possono osservare” (I-II, q. 96, a. 4 c.).
Sulla stessa frequenza d’onda si muove Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae: “L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza” (73).
Quando in ballo ci sono atti intrinsecamente malvagi come l’omicidio, la persona non può che evitare di compierli, costi quel che costi. Vengono chiamati mala in se, atti che obbligano sempre all’omissione, che non devono mai essere compiuti né per un fine buono, né in alcuna circostanza.
E così un medico non potrà giustificarsi dicendo: “Uccido questo paziente altrimenti perdo il posto di lavoro e ho moglie e figli da mantenere oppure perché è il paziente stesso che mi chiede di farlo”.
L’unica strada percorribile è l’obiezione di coscienza che, lo ripetiamo, sebbene non sia prevista dalla legge civile è richiamata come dovere etico dalla legge morale naturale.
E se il medico finirà dietro le sbarre? Anche a costo di finire in galera il medico, il personale infermieristico, i paramedici e i dirigenti degli ospedali non potranno piegarsi a richieste eutanasiche.
Mai compiere il male, anche a prezzo di gravi danni personali come la perdita della libertà, del lavoro, il rischio di finire per strada, l’ostracismo professionale, i dissidi in famiglia.
Così Giovanni Paolo II sempre nell’Evangelium vitae: “È proprio dall’obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13, 10)” (73).
Si chiama martirio? Certo. Non è più il momento dei sottili distinguo sul bene e sul male, dei giochi di equilibrismo condotti sul crinale tra il lecito e l’illecito, del discernimento dei casi particolari, delle condotte buone ma inopportune o malvagie però assai inopportune, delle scriminanti della coscienza perplessa, dei dilemmi se sia meglio assecondare per poter dialogare o dialogare per essere assecondati.
E’ finito tutto questo. Ora per i medici c’è una chiamata alle armi, ossia una chiamata al coraggio. O di qui o di là. Scegli con chi schierarti, non puoi più stare in mezzo al guado, essere furbescamente neutro, pavidamente moderato. Non c’è più spazio per l’et-et, ma solo per l’aut-aut.
E siamo arrivati a questo punto proprio perché la politica – non la fede – di molti sedicenti cattolici è stata quella dell’accorta mediazione, del male minore, del conformismo morale, del torbido tiepidume etico, della lotta al caldo d’estate e alle slot machine in città, della prudente schermaglia di retroguardia condotta sulla minutaglia di questioni bagatellari, della delazione di chi rimane fedele alla Chiesa, del guardare con occhi strabici per troppa ipocrisia a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide, del temperare le asperità degli assoluti morali, della svendita della sana dottrina, dell’imboscamento per non perdere consenso, del tradimento dei principi non negoziabili, della prostituzione delle coscienze, del peloso intruppamento senza se e senza ma con i malavitosi dottrinali.
Avete fatto avanzare il nemico fin dentro le mura delle vostre case, lo avete fatto dormire nei vostri letti (vedi legge sul divorzio, sulla fecondazione artificiale e sulle unioni civili), giocare con i vostri figli (vedi leggi sull’aborto e sull’educazione gender nelle scuole), pensando così di ammansire la belva e che sarebbe stato a voi garantito uno spazietto sicuro, libero, tutto per voi.
Ma vi sbagliavate di grosso. Ora siete all’angolo. Ora non potete che sparare al paziente togliendogli acqua e cibo oppure no. Difficile avere coraggio adesso se per tutta la vita l’unico allenamento della vostra anima è stato il compromesso. Ora siete rimasti tragicamente soli con la vostra fragilissima coscienza.