Come la sinistra “accolse” i profughi italiani dell’Istria dovuti al comunismo titino – di Antonio Socci

Profughi IstriaOgni giorno, a proposito della marea migratoria, da Sinistra arrivano sermoni moraleggianti sul dovere dell’accoglienza generalizzata e incondizionata degli stranieri. Peraltro danno spesso, tacitamente, ad intendere che tutti siano “profughi” (quando – in realtà – solo una piccola percentuale è costituita da profughi). Eppure se, nella nostra storia nazionale, qualcuno ha da fare un “mea culpa” sull’accoglienza dei profughi, è proprio la Sinistra, almeno quella comunista.

La vicenda – perlopiù cancellata dalla storiografia ufficiale – riguarda addirittura dei profughi italiani, verso i quali avevamo dunque un doppio dovere di accoglienza e di solidarietà.

Accadde nel secondo dopoguerra. Sto parlando degli italiani del Quarnaro e della Dalmazia, di Zara, Pola e Fiume.

In quelle disgraziate terre del confine orientale, già martoriate dalla guerra, il comunismo titino arrivò brutalmente e “la volontà delle autorità comuniste jugoslave” fu subito quella di “eliminare ogni traccia di italianità” (Gianni Oliva).

Da qui viene l’orrore delle foibe, conosciute dal grande pubblico solo da pochi anni, essendo state per decenni “censurate” dalla cultura dominante.

E con le foibe dilagò il terrore. Il 21 marzo 1946, il professor Craglietto, presidente del Comitato di liberazione nazionale di Pola, dichiarava alla Commissione internazionale per la delimitazione dei confini: “Gli arresti, le deportazioni e anche le uccisioni avvengono senza che nessuno intervenga a proteggere gli infelici. Il pericolo maggiore è quello di finire nelle orribili foibe nelle quali hanno trovato la morte atroce troppi infelici colpevoli solo di essere italiani”.

Il terrore generalizzato di quella “pulizia etnica” costrinse migliaia di persone alla fuga. Per sfuggire al comunismo delle fucilazioni e delle foibe, per sottrarsi alle persecuzioni del regime titino che aveva appena occupato militarmente quelle terre, circa trecentomila italiani fuggirono via dalle città e dai paesi dove erano nati, dove erano vissuti e dove erano sepolti i loro avi.

Dovettero abbandonare le loro case e perdere i loro beni. Fu, dal 1945, un esodo biblico di migliaia di povere famiglie che arrancavano, con poche valigie, per trovare rifugio in Italia.

L’Italia aveva un assoluto dovere di accoglienza non solo perché si trattava di nostri compatrioti che pagavano, loro soli, per tutti gli italiani, il conto di una guerra perduta (avevano avuto la sfortuna di abitare le terre di confine con la Jugoslavia).

Non solo per questo, ma anche perché l’Italia aveva dovuto sottoscrivere – come sconfitta – il Trattato di pace che consegnava alla Jugoslavia proprio quei territori italiani affacciati sull’Adriatico.

Quindi il nostro Paese aveva un ulteriore obbligo di accoglienza, anzi, addirittura un obbligo di risarcimento.

Ma quello che invece accadde ha dell’incredibile ed è tuttora “rimosso”. Lo ha raccontato in diversi sedi (e anche su queste colonne) Giampaolo Pansa:

“Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei ‘fascisti’ fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito.

Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione ‘Budicin’. Il grido di benvenuto era uno solo: ‘Fascisti, via di qui!’. Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo ‘Toscana’, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse.

Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve.

Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari”.

Pansa ha “inventariato” altri episodi dello stesso tenore:

“A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma ‘Ugo Botti’, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: ‘In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani’ ”.

I trecentomila esuli – che erano profughi veri e italiani, non migranti economici – furono stipati in circa centoventi campi sparsi nella penisola e, a poco a poco, con gli anni, lavorando sodo com’erano abituati, si rifecero una vita.

Portando silenziosamente nel cuore la ferita della propria terra perduta senza colpa e anche il dolore di questa “accoglienza” ricevuta dalla loro Patria.
Prima di impartire lezioni agli altri sui profughi la Sinistra italiana dovrebbe fare i conti con questa dolorosa storia.

 

Antonio Socci

Da “Libero”, 10 luglio 2017

 
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