Lo scorso 13 ottobre – anniversario dell’apparizione della Madonna a Fatima – Papa Francesco ha accolto in Vaticano un pellegrinaggio composto da luterani. Una statua del monaco apostata Martin Lutero presiedeva la sessione tenutasi nell’aula Paolo VI. “Rendiamo grazie a Dio perché oggi, luterani e cattolici, stiamo camminando sulla via che va dal conflitto alla comunione”, ha dichiarato il Pontefice nella sua allocuzione.
Perplessità
Il pellegrinaggio era stato organizzato in vista del viaggio che Papa Bergoglio compirà in Svezia per celebrare, insieme ai luterani, i cinquecento anni della cosiddetta “Riforma” protestante: “Alla fine di questo mese, a Dio piacendo, mi recherò a Lund, in Svezia, e insieme alla Federazione Luterana Mondiale faremo memoria, dopo cinque secoli, dell’inizio della riforma di Lutero e ringrazieremo il Signore per cinquant’anni di dialogo ufficiale tra luterani e cattolici”.
I gesti amichevoli nei confronti dei luterani si stanno moltiplicando già da qualche tempo. Durante la visita alla chiesa evangelica luterana di Roma, il 15 novembre 2015, Papa Francesco aveva auspicato la “rivalutazione delle intenzioni della Riforma e della figura di Martin Lutero”.
Durante il volo di ritorno dall’Armenia, lo scorso 26 giugno, egli aggiungeva: “ Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. (…) Lui ha fatto una ‘medicina’ per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di credere, in un modo di fare, in modo liturgico. Ma non era lui solo: c’era Zwingli, c’era Calvino”.
Tali dichiarazioni e gesti non possono non suscitare una crescente perplessità in molti fedeli. Costoro faticano a comprendere come una figura che ha provocato tante sofferenze alla Chiesa possa essere in qualche modo “rivalutata”.
La perplessità non è di oggi. Già in occasione di simili gesti compiuti in passato da altri Pontefici molte voci si erano alzate.
Ecco quanto scriveva, per esempio, Plinio Corrêa de Oliveira nel 1984:
“Non comprendo come uomini della Chiesa contemporanea, compresi alcuni tra i più colti, dotti o illustri, mitizzino la figura di Lutero, l’eresiarca, nello sforzo di favorire un’approssimazione ecumenica, direttamente al protestantesimo e indirettamente a tutte le religioni, scuole filosofiche, ecc.
Non scorgono il pericolo che è in agguato in fondo a questo sentiero, cioè la formazione, su scala mondiale, di un sinistro supermercato di religioni, filosofie e sistemi di tutti gli ordini, in cui la verità e l’errore si presenteranno frazionati, mescolati e messi alla rinfusa?
Sola assente dal mondo sarà – qualora fosse possibile arrivare fino a questo punto – la verità integra: cioè la Fede cattolica, apostolica, romana, senza macchia né tanfo. Su Lutero – a cui spetterebbe, sotto un certo aspetto, il ruolo di punto di partenza in questa strada verso la baraonda universale – pubblico oggi ancora alcuni passi che ben mostrano l’odore che la sua figura di ribelle spargerebbe in questo supermercato, o meglio in questo obitorio delle religioni, delle filosofie e dello stesso pensiero umano” (1).
La verità storica
Il fatto è che, oltre a cozzare col dogma cattolico, la “rivalutazione” di Lutero si scontra – e in modo violento – con la stessa verità storica. Sembrerebbe quasi che coloro che “mitizzano” la figura di Lutero non abbiano mai letto le sue opere, piene di bestemmie contro Nostro Signore Gesù Cristo e contro il Papato. “L’immagine tradizionale di Lutero, per molti aspetti, è incoerente con la realtà storica”, scrive lo storico protestante Dietrich Emme, specialista nella vita giovanile del riformatore (2).
Nel 1510 Martino Lutero, allora monaco agostiniano, si recò a Roma per portare una lettera di protesta in merito a una diatriba interna al suo Ordine.
La volgata protestante vorrebbe che, di fronte al desolante spettacolo di decadenza (“una cloaca”, dirà lui con riferimento sia all’Urbe sia alla Chiesa), il monaco di Wittemberg fosse rimasto scioccato. Il che avrebbe innescato in lui prima il rigetto, poi il dubbio e infine la ribellione. Dunque, una reazione forse esagerata ma tutto sommato giustificata.
Un’attenta lettura delle fonti originali ci fa vedere, invece, uno spirito irrequieto, dissoluto e già incline alla ribellione.
Forse è il caso di gettare uno sguardo su alcuni di questi documenti, che altro non sono che le stesse opere (Werke) di Martin Lutero, nelle due edizioni ufficiali: quella di Wittemberg (1551) e quella di Weimar (1883).
Conviene anche rilevare che gli autori sotto citati – Emme, Brentano, De Wette e Burckhardt – sono tutti protestanti.
La “vocazione” religiosa di Lutero
L’ingresso di Martino Lutero nell’Ordine agostiniano non fu dovuto tanto a una vocazione religiosa quanto al fatto che era latitante e voleva sfuggire alle autorità. Mentre era studente di Giurisprudenza all’Università di Erfurt, Lutero si batté a duello con un compagno, Hieronimus Buntz, uccidendolo.
Per sfuggire alla giustizia, egli entrò allora nel monastero degli Eremiti di S. Agostino.
Lo stesso Lutero ammise il vero motivo del suo ingresso in monastero: “Mi sono fatto monaco perché non mi potessero incarcerare. Se non lo avessi fatto, sarei stato facilmente arrestato. Ma così fu impossibile, poiché tutto l’Ordine Agostiniano mi proteggeva” (3).
Purtroppo, nel monastero non imparò a diventare buono. Egli stesso confessava in un sermone del 1529: “Io sono stato un monaco che voleva essere sinceramente pio. Al contrario, però, sono sprofondato ancor di più nel vizio. Sono stato un grande furfante ed un omicida” (4).
La sua vita spirituale era in rovinoso declino.
Nel 1516, Lutero scrisse: “Raramente ho il tempo di pregare il Breviario e di celebrare la Messa. Sono troppo sollecitato dalle tentazioni della carne, del mondo e del diavolo” (5).
Ancora nel 1516 egli dichiarava: “Confesso che la mia vita è sempre più prossima all’inferno. Giorno dopo giorno divento più abietto” (6).
Nel convento, Lutero era soggetto a frequenti crisi di nervi, ad allucinazioni deliranti, in preda anche a segni di possessione.
Nel guardare il Crocefisso egli spesso era assalito da convulsioni e cadeva a terra (7).
Quando celebrava la Messa, era preso dal terrore: “Arrivato all’Offertorio ero così spaventato che volevo fuggire. Mormoravo ‘Ho paura! Ho paura!’” (8).
Agitato, nervoso, continuamente in crisi, tentato dal diavolo (che, secondo lui, gli appariva in forma di un enorme cane nero col quale condivideva perfino il letto) roso dai rimorsi, Lutero cominciò a formarsi l’idea che fosse predestinato alla dannazione eterna, e questo gli faceva odiare Dio: “Quando penso al mio destino dimentico la carità verso Cristo. Per me, Dio non è che uno scellerato. L’idea della predestinazione cancella in me il Laudate, è un blasfemate che mi viene allo spirito” (9).
Lutero, insomma, si immaginava già nell’inferno: “Io soffrivo le torture dell’inferno, ne ero divorato. Mi assaliva perfino la tentazione di bestemmiare contro Dio, quel Dio rozzo, iniquo. Io avrei mille volte preferito che non ci fosse Dio!” (10).
L’apostasia di Lutero. La dottrina della giustificazione
Lutero faceva poco o nulla per lottare contro i suoi difetti. I suoi confratelli agostiniani lo descrivono come “nervoso, di umore molto sgradevole, arrogante, ribelle, sempre pronto a discutere e ad insultare”. Egli stesso dirà di sé: “Io mi lasciavo prendere dalla collera e dall’invidia” (11).
Eccitato da cattive letture, orgoglioso al punto di non accettare nessuna autorità, Lutero cominciò a contestare diversi punti della dottrina cattolica fino a rigettarne parecchi.
Lutero difendeva le sue rivoluzionarie idee in modo arrogante, ritenendosi “l’uomo della Provvidenza, chiamato per illuminare la Chiesa con un grande bagliore”. “Chi non crede con la mia fede è destinato all’inferno — scriveva — La mia dottrina e la dottrina di Dio sono la stessa cosa. Il mio giudizio è il giudizio di Dio” (12).
In un’altra lettera ecco cosa dice di se stesso: “Non vi sembra un uomo stravagante questo Lutero? Quanto a me, penso che egli sia Dio. Altrimenti, come avrebbero i suoi scritti e il suo nome la potenza di trasformare mendicanti in signori, asini in dottori, falsari in santi, fango in perle?” (13).
Sulle sue dottrine egli asseriva ancora: “Sono certo che i miei dogmi vengono dal cielo. Io vincerò, il Papato crollerà nonostante le porte dell’inferno!” (14).
Fu in queste lamentevoli condizioni spirituali che, verso la fine del 1518, successe ciò che Lutero stesso chiamò «das Turmerlebnis», cioè l’avvenimento della Torre, vero punto di partenza del protestantesimo.
In cosa consiste questo «Turmerlebnis»? Lutero era seduto sulla cloaca nella torre che serviva da bagno nel monastero (cfr. Martin Lutero. Per la stesura delle sue 95 tesi importante fu il gabinetto), quando improvvisamente ebbe un’“illuminazione” che lo fece “pensare in un altro modo”:
“Le parole giustizia e giustizia di Dio — scrive Lutero — si ripercuotevano nel fondo della mia coscienza come un fulmine che distrugge tutto. Io ero paralizzato e pensavo: Si Dio è giusto, egli punisce. Siccome continuavo a pensare a ciò, sono improvvisamente venute al mio spirito le parole di Habacuc: Il giusto vive della fede. E ancora: La giustificazione di Dio si manifesta senza l’azione della legge. A partire da questo punto, io ho cominciato a pensare in altro modo” (15).
Questo “altro modo” era la dottrina della giustificazione per la sola fede, indipendente dalle opere, la pietra angolare del protestantesimo.
Secondo Lutero, i meriti sovrabbondanti di Nostro Signore Gesù Cristo assicurano agli uomini la salvezza eterna.
All’uomo, quindi, basta credere per salvarsi: “Il Vangelo non ci dice cosa dobbiamo fare, esso non esige niente da noi. (…) [Il Vangelo dice semplicemente] credi e sarai salvato” (16).
Tale dottrina è tanto sconclusionata che lo stesso Lutero, con duri sforzi cercava di accreditarla: “Non vi è nessuna religione in tutta la terra che insegni questa dottrina della giustificazione; io stesso, anche se la insegno pubblicamente, con gran difficoltà la credo nei particolari” (17).
Di conseguenza, su questa terra possiamo anche condurre una vita di peccato senza rimorsi di coscienza né timore della giustizia di Dio, poiché basta avere fede per essere già salvati: “Anche se ho fatto del male, non importa. Cristo ha sofferto per me. A questo si riduce il cristianesimo. Dobbiamo sentire che non abbiamo peccato, anche quando abbiamo peccato. I nostri peccati aderiscono a Cristo, che è il salvatore del peccato” (18).
Lutero anzi sosteneva che, per rafforzare la nostra fede, dobbiamo peccare. Così rimarrà chiaro che è Cristo che ci salva e non noi.
Quest’idea Lutero la sintetizzava nella sua nota formula: esto peccator et pecca fortiter. In una lettera all’amico Melantone del 1° agosto 1521, Lutero affermava: “Sii peccatore e pecca fortemente ma con ancora più fermezza credi e rallegrati in Cristo. (…) Durante la vita presente dobbiamo peccare” (19).
Scrivendo a un altro seguace, Lutero diceva ugualmente: “Devi bere con più abbondanza, giocare, divertirti e anche fare qualche peccato. (…) In caso il diavolo ti dica: Non bere! Tu devi rispondere: in nome di Gesù Cristo, berrò di più! (…) Tutto il decalogo deve svanire dagli occhi e dall’anima” (20).
A un altro amico, egli scrisse ancora: “Dio ti obbliga solo a credere. In tutte le altre cose ti lascia libero e signore di fare quello che vuoi, senza pericolo alcuno di coscienza. Egli non se ne cura, quando anche lasciassi tua moglie, abbandonassi il tuo padrone e non fossi fedele ad alcun vincolo” (21).
Ovviamente, le conseguenze dell’applicazione di queste dottrine non potevano essere altro che il dilagare del peccato e del vizio.
Lutero stesso lo ammette. Per quanto riguardava i suoi seguaci protestanti, egli scrisse: “Sono sette volte peggiori di una volta. Dopo la predicazione della nostra dottrina, gli uomini si sono dati al furto, alla menzogna, all’impostura, alla crapula, all’ubriachezza e a ogni genere di vizi. Abbiamo espulso il demonio — il papato — e ne sono venuti sette peggiori” (22).
Un uomo pieno di vizi
Il primo a piombare nel vizio è stato proprio lui. Il 13 giugno 1521, scrisse a Melantone: “Io mi trovo qui insensato e indurito, sprofondato nell’ozio, pregando poco e senza più gemere per la Chiesa di Dio, perché nelle mie carni indomite ardo di grandi fiamme. Insomma, io che dovrei avere il fervore dello spirito, ho il fervore della carne, della libidine, della pigrizia, dell’ozio e della sonnolenza” (23).
In un altro scritto, Lutero è altrettanto chiaro: “Sono un uomo esposto e coinvolto nella vita di società, nella crapula, nelle passioni carnali, nella negligenza ed in altre molestie” (24).
Lutero rapì dal convento una monaca cistercense, Caterina Bora, e la prese per amante.
Nel 1525, “per chiudere le cattive lingue”, secondo quanto dichiarava, la sposò, nonostante tutti e due avessero fatto voto di castità.
Lutero aveva una chiara nozione della riprovevole azione che aveva compiuto. Egli scrisse al riguardo: “Con il mio matrimonio sono diventato così spregevole che gli angeli rideranno di me e i demoni piangeranno” (25).
Caterina, però, non fu l’unica donna nella sua vita.
Egli aveva la brutta abitudine di avere rapporti carnali con monache apostate, che egli stesso adescava dai conventi.
Su di lui scriveva il suo seguace Melantone: “Lutero è un uomo estremamente perverso. Le suore che egli ha tirato fuori dal convento lo hanno sedotto con grande astuzia ed hanno finito col prenderlo. Egli ha con loro frequenti rapporti carnali” (26).
Lutero non faceva segreto della sua immoralità. In una lettera all’amico Spalatino leggiamo infatti: “Io sono palesemente un uomo depravato. Ho tanto a che fare con le donne, che da un po’ di tempo sono diventato un donnaiolo. (…) Ho avuto tre mogli allo stesso tempo, e le ho amate così ardentemente che ne ho perse due, andate a vivere con altri uomini” (27).
Lutero aveva anche il vizio dell’ubriachezza e della gola: “Nel bere birra non c’è nessuno che si possa paragonare a me”. In una lettera a Caterina, diceva: “Sto mangiando come un boemo e bevendo come un tedesco. Lodato sia Dio!” (28).
Verso la fine della vita, l’ubriachezza lo dominava totalmente: “Spendo le mie giornate nell’ozio e nell’ubriachezza” (29).
Bestemmiatore
Ma forse in nessun altro campo si è manifestato tanto il cattivo spirito di Lutero quanto nella sua tendenza a bestemmiare, specie contro la Chiesa e il Papato.
Seguono alcuni esempi, tratti dalle sue lettere e sermoni.
“Certamente Dio è grande e potente, buono e misericordioso, ma è anche stupido. Deus est stultissimus. È un tiranno” (30).
“Cristo ha commesso adulterio una prima volta con la donna della fontana di cui ci parla Giovanni. Non si mormorava intorno a lui: Che ha fatto dunque con essa? Poi ha avuto rapporti sessuali con Maria Maddalena, quindi con la donna adultera. Così Cristo, tanto pio, ha dovuto anche lui fornicare prima di morire” (31).
Lutero fa di Dio il vero responsabile del tradimento di Giuda e della rivolta di Adamo. “Lutero – commenta lo storico protestante Funck Brentano – arriva a dichiarare che Giuda, tradendo Cristo, agì per imperiosa decisione dell’Onnipotente. La sua volontà [di Giuda] era diretta da Dio; Dio lo muoveva con la sua onnipotenza. Lo stesso Adamo, nel paradiso terrestre fu costretto ad agire come agì. Egli fu messo da Dio in una situazione tale che gli era impossibile non cadere” (32).
“Tutte le case chiuse, tutti gli omicidi, le morti, i furti e gli adulteri sono meno riprovevoli dell’abominazione della Messa papista” (33).
Non meraviglia che, mosso da tali idee, Lutero scrivesse a Melantone a proposito delle sanguinose persecuzioni di Enrico VIII contro i cattolici inglesi: “È permesso abbandonarsi alla collera, quando si sa che specie di traditori, ladri e assassini sono i papi, i loro cardinali, i loro legati. Piacesse a Dio che vari re di Inghilterra si impegnassero a farli scomparire” (34).
“Perché non acchiappiamo papa, cardinali e tutta la cricca della Sodoma romana e ci laviamo le mani con il loro sangue?” (35).
“La corte di Roma è governata per un vero Anticristo, di cui ci parla S. Paolo. (…) Credo di poter dimostrare che, nei giorni nostri, il Papa è peggiore dei turchi” (36).
“Così come Mosè ha distrutto il vitello d’oro, così dobbiamo fare noi con il papato, fino a ridurlo in ceneri. (…) Vorrei abolire tutti i conventi, vorrei farli sparire, raderli al suolo (…) affinché di essi non rimanga sulla terra neanche la memoria” (37).
Nella risposta alla bolla di scomunica, Lutero scrisse con arroganza: “Io e tutti i servi di Gesù Cristo riteniamo ormai il trono pontificio occupato da Satana, come la sede dell’Anticristo, noi ci rifiutiamo di ubbidire” (38).
Lutero è morto in mezzo a orribili bestemmie contro il Papato, contro la Chiesa e contro i santi. Sentendo arrivare la fine, ha dettato una “preghiera” che finiva così: “Muoio odiando il Papa. (…) Vivo, io ero la tua peste, morto sarò la tua morte, o Papa!”.
Julio Loredo
Note
1. Plinio Corrêa de Oliveira, Lutero si considera divino!, “Folha de S. Paulo” 10 gennaio 1984, tradotto e pubblicato da “Lepanto”, Roma, Anno III – n. 22, gennaio 1984, pp. 3-4. Si veda anche Id., Lutero: no e poi no!, “Folha de S. Paulo”, 27 dicembre 1983.
2. Dietrich Emme, Über die Bedeutung der biographischen Lutherforschung, in Remigius Bäumer, Alma von Stockhausen (Hrsg.), Luther und die Folgen für die Geistesgeschichte – Festschrift für Theobald Beer (Gustav-Siewerth-Akademie, 1996), pp. 31-40. Cfr. anche Dietrich Emme, Martin Luther, Seine Jugend und Studienzeit 1483-1505. Eine dokumentarische Darstellung (Verlag Dietrich Emme, Regensburg, 1986). E anche la versione aggiornata: Dietrich Emme, Gesammelte Beiträge zur Biographie des jungen Martin Luther, hrsg. von Richard Niedermeier (Gustav-Siewerth-Akademie, 2016).
3. Dietrich Emme, Weshalb wurde Martin Luther ein Mönch?, in “MDR-Monatsschrift für Deutsches Recht”, 32. Jg., 5/1978, pp 378-380. Cfr. anche Dietrich Emme, Warum ging Luther ins Kloster?, in “Theologisches. Beilage der Offerten-Zeitung für die katholische Geistlichkeit Deutschlands”, 1/1985, Nr. 177, pp. 6188-6192.
4. Id., ibid. Emme cita il documento originale: Tischreden, Wa W, 29, 50, 18.
5. Cit. in Wilhelm Martin Leberecht de Wette, Luther, M., Briefe, Sendschreiben und Bedenken vollständig Gesammelt, Berlino, 1825-1828, I, p. 41.
6. Cit. in Id., ibid., I, p. 323.
7. Franz Funck Brentano, Luther, Parigi, Grasset, 7 ed., 1934, pp. 29-39.
8. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, 1883, I, 487. Tischrede del 5 maggio 1532.
9. Brentano, op. cit., p. 53.
10. Id., ibid., p. 32.
11. Id., ibid., p. 32.
12. D. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, 1883, X, 2, Abt. 107.
13. Martin Luther, Werke, ed. Wittemberg, 1551, t. IV, p. 378.
14. D. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, X, 2, Abt. 184.
15. Brentano, op. cit., pp. 65-73.
16. D. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, XXV, 329.
17. D. Martin Luther, Werke, ed. di Weimar, XXV, p. 330.
18. Id., ibid., XXV, 331.
19. Cit. in De Wette, op. cit., II, p. 37.
20. Cit. in Id., ibid., pp. 199-200.
21. D. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, XII, p. 131.
22. D. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, XXVIII, p. 763.
23. Cit. in De Wette, op. cit., II, p. 22.
24. Cit. in Id., ibid., I, 232.
25. Cit. in Id., ibid., III, 2,3.
26. Cit. in Id., ibid., III, 3.
27. Cit. in Id., ibid., III, 9.
28. In Carl August Burkhardt, Dr. Martin Luther, Briefwechsel, Leipzig, 1886, p. 357.
29. Cit. in De Wette, op. cit., II, 6.
30. Martin Luther, Tischreden, No. 963, Werke, ed. Weimar, I, 478.
31. Martin Luther, Tischreden, No. 1472, Werke, ed. Weimar, II, 107.
32. Brentano, op. cit., p. 246.
33. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, XV, 773-774.
34. Cit. in Brentanno, op. cit., p. 254.
35. Id., ibid., p. 104.
36. Id., ibid., p. 63.
37. Martin Luther, Werke, ed. Weimar, VIII, 624.
38. Cit. in Brentano, op. cit., p. 100.
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