“Pil fermo da 15 anni”, l’allarme di Confindustria>>. Questo titolo di “Repubblica”, venerdì, illustrava i dati del Centro studi di Confindustria. In effetti – in questi quindici anni – il pil (cioè la ricchezza prodotta dal Paese) è rimasto fermo. Quindici anni di crescita perduta. Con l’economia in profonda depressione sono cresciute le tasse (dal 40,2 al 43,5 per cento), i giovani disoccupati (dal 23,7 al 36,9 per cento) e il debito pubblico (dal 108 per cento sul Pil all’attuale 132 per cento).
E’ la fotografia di una disfatta, di un Paese al fallimento. Eppure nessuno sembra chiedersi perché questa catastrofe si è prodotta da quindici anni a questa parte.
Cosa è successo quindici anni fa che ha mandato in coma l’economia italiana?
“Repubblica” in quella pagina ci ha ricordato, fra l’altro, che nel 2001 Elisa trionfava a Sanremo e Nanni Moretti a Cannes. Ma di certo non sono loro ad aver messo ko l’economia italiana. Dunque?
VERITA’ CENSURATA
Il (mis)fatto accaduto nel 2001-2002 è un altro, ma pare che nessuno voglia vederlo e interrogarsi su quello: proprio quindici anni fa l’Italia ha abbandonato la lira ed è entrata nell’euro. Ecco l’evento storico che ha tagliato le gambe all’Italia.
La catastrofe è cominciata da lì. Ma perché nessuno sembra volerlo riconoscere?
Non sarà mica perché – a quel tempo – quasi tutti gli esperti (politici, opinionisti, analisti, banchieri, intellettuali) ci avevano assicurato che l’ingresso dell’euro sarebbe stato come l’entrata nella Terra promessa dove scorrono latte e miele?
Non sarà mica perché i pochi euroscettici di allora, che osavano manifestare dubbi, venivano messi moralmente al rogo come streghe sulla pubblica piazza mediatica?
Ricordate? Chi diffidava dell’euro era considerato un buzzurro, provinciale e reazionario, dai sedicenti “colti”, dagli illuminati e lungimiranti “europeisti”.
Ebbene, oggi, quindici anni dopo, gli “esperti” che presero quel colossale abbaglio sono ben lungi dal riconoscere l’errore e dall’ammettere che avevano ragione i pochi anticonformisti.
Eppure che il collasso sia cominciato 15 anni fa e che sia dovuto all’ingresso nell’euro è evidente.
Naturalmente non è stato solo l’euro in sè, ma tutto il caravanserraglio che ha comportato.
Per esempio il tragico cambio lira/euro, 1936,27 lire per un euro, che (come ha spiegato sabato Franco Bechis nel suo splendido articolo su Ciampi) ha di colpo dimezzato gli stipendi degli italiani, impoverendo un intero Paese.
E poi l’egemonia tedesca e della Bundesbank, specie nella gestione della moneta unica da parte della Bce di Trichet, perché – secondo l’economista Mario Baldassarri e il Centro studi Economia reale – “all’intera eurozona la super moneta unica è costata dal 2003 al 2014 l’11% di Pil in meno e 18 milioni di disoccupati in più.
A questo si aggiunge il costo della stupidità di Maastricht, che ha spinto tutti i governi a cercare di azzerare il deficit aumentando tasse e tagliando investimenti. Qui abbiamo perso altri 8 milioni di occupati e il 5% di Pil”.
All’Italia è toccato uno dei conti più salati e oggi è il Paese più in difficoltà (dopo la Grecia).
Certo si scontano pure gli effetti della crisi del 2008, importata dagli Usa, ma è sempre l’Italia il Paese più in difficoltà. E nonostante la straordinaria congiuntura favorevole – col costo del denaro e il prezzo del petrolio ai minimi – non riesce a uscire dalla sala rianimazione.
LE CASTE E IL POPOLO
Prima che un problema economico, però, è un problema culturale: stiamo pagando il fallimento delle élite, della loro boria ideologica e della loro incapacità di vedere la realtà. Il “disastro euro” viene da qui.
Se questo Paese, nella seconda metà del Novecento ha fatto “miracoli” dal punto di vista economico, ciò non è mai avvenuto per la lungimiranza delle élite e per le loro idee illuminate, ma malgrado le élite.
Quei miracoli economici sono sempre stati merito del disprezzato popolo italiano che ha lavorato sodo e ha messo in campo la sua inventiva.
Qualche settimana fa Giuseppe de Rita (che pure delle élite fa parte) sul “Corriere della sera” (che è stato il giornale di quelle élite), parlando del fallimento delle élite (italiane ed europee) ha scritto: “lo sviluppo italiano degli ultimi decenni è nato e cresciuto dal basso (dalla carica vitale di milioni di soggetti economici e sociali) e spesso al di fuori di ogni canone di cultura elitaria (al di fuori cioè delle ideologie, dei richiami al bene comune, dell’impegno dei grandi potentati economici e culturali)”.
Giustamente De Rita ha dato un nome alla cecità e all’arroganza delle élite: ideologia. L’articolo di De Rita infatti aveva questo titolo: “Un’autocritica necessaria per le élites in crisi”.
Ma chi l’ha mai vista quell’autocritica? Le élite (a cominciare da quelle tecnocratiche europee) stanno ancora in cattedra e ora lanciano fulmini e anatemi – con l’imputazione di “populismo” – su chiunque osi diffidare di loro e osi ricordare i loro abbagli e i loro disastri.
Così adesso, visto il malessere popolare, arrivano pure a giudicare pericolosa la democrazia (l’abbiamo visto per la Brexit) dal momento che i popoli stanno imparando a ribellarsi agli “illuminati”, per esempio diffidando della “troika” (FMI, BCE e Commissione europea) che pretende di sostituirsi alla sovranità popolare.
Il problema è che le élite sono da un secolo – e restano tuttora – prigioniere delle ideologie, cioè dell’incapacità di vedere la realtà. Sono incastrate in quella che lo storico francese Marc Ferro definisce “la credulità militante”.
Proprio un libro di Ferro, “L’aveuglement” (l’accecamento), fa discutere in Francia perché mette in fila una sconcertante serie di abbagli storici, dalle conseguenze disastrose.
Dall’incapacità di vedere la natura totalitaria del comunismo e del nazismo, fino – nei tempi recenti – alla cecità di fronte all’Islamismo.
I governi purtroppo tendono ad ascoltare più le èlite che la gente comune, così fanno propria la loro “cecità” e disprezzano il sano realismo popolare.
Per questo tali governi falliscono nel loro primo compito che è quello di saper vedere e valutare i fenomeni per quello che sono (non per quello che dice l’ideologia) e saperne prevedere le conseguenze.
“Governare significa prevedere” (Comte). E come i governi europei non hanno saputo prevedere i disastri dell’euro, così, non volendo (pre)vedere i disastri di un’immigrazione di massa, oggi non sanno (o non vogliono) governarla.
C’è una sola strada percorribile: che i popoli si riprendano la loro sovranità. Politica e anche monetaria.
Antonio Socci
Da “Libero”, 19 settembre 2016
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