Nel citare Francesco a proposito dei negoziati in corso tra la Santa Sede e la Cina, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha dato evidenza ai due supremi criteri ai quali il papa ispirerebbe la sua azione: realismo e perdono. In effetti, entrambi questi criteri erano dominanti nella memorabile intervista rilasciata da papa Francesco lo scorso 2 febbraio al quotidiano on line di Hong Kong “Asia Times”. Quell’intervista era un superbo esempio di Realpolitik spinta all’estremo.
Lo era per il suo voluto silenzio – concordato con l’intervistatore – sulle questioni religiose e di libertà.
Lo era per le parole con cui il papa assolveva in blocco il passato e il presente della Cina, esortandola ad “accettare il proprio cammino per quel che è stato”, come “acqua che scorre” e tutto purifica, anche quei milioni di vittime che il papa s’è guardato dal nominare, neppure velatamente.
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Ebbene, a proposito di questi due criteri, un nostro acuto lettore ci offre due pietre di paragone utilissime per un esame critico dell’uno e dell’altro.
Quanto al realismo che – dicono Bergoglio e Parolin – “rifiuta la logica del ‘o questo o niente’ e intraprende la strada del possibile per riconciliarsi con gli altri”, ecco una citazione di un sommo maestro della materia, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, che a proposito di una certa politica della “distensione” promossa da alcuni governi occidentali nei confronti dell’Unione sovietica scriveva:
“Tutti i governi occidentali devono compiere seri sforzi per allentare le tensioni e per risolvere mediante negoziati residue differenze. Ma il problema per l’Occidente è di ben maggiore momento.
Nei nostri paesi ha corso la tendenza a considerare la distensione come alcunché di teatrale, in altre parole non già quale un equilibrio di interessi nazionali e negoziali allacciati sulla base di realtà strategiche, bensì quale un esercizio pervicace di buona volontà, nel corso del quale, grazie alla comprensione ed alla persuasione, si possano attenuare i sospetti di un paese che si presume non abbia nessun altro motivo per scatenare un’aggressione.
Questa tendenza a considerare la distensione alla stregua di un esercizio psicoterapeutico, oppure quale un tentativo di istituire buoni rapporti personali, o ancora quale uno sforzo compiuto da singoli leader per guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica, comprovando di avere rapporti privilegiati con Mosca, è un disastro per l’Occidente” (“Punti fermi”, Mondadori, 1981, p. 260).
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Quanto invece all’altro criterio del perdono, della misericordia e della riconciliazione, ecco alcune citazioni tratte da un saggio del filosofo e psicologo Giovanni Cucci, gesuita, pregevole scrittore de “La Civiltà Cattolica”, dal titolo “P come perdono“, edito da Cittadella nel 2011:
– Il perdono “resta un atto libero, non dovuto, e difficile, perché non è una sorta di bacchetta magica capace di fa sparire il male e riportare tutto come prima” (p. 6).
– “Senza un lavoro previo sui propri sentimenti e in particolare sulla rabbia, c’è il rischio di una riconciliazione forzata, superficiale, che porta a inasprire ulteriormente il rapporto, allontanandosi dalla persona piuttosto che avvicinarla” (p. 14-15).
– La riconciliazione, che è “un gesto differente, successivo, che certamente completa il processo del perdono ma che non coincide con esso… richiede una esplicita richiesta di perdono da parte dell’offensore come passo previo, richiesta che può risultare ulteriormente credibile se sono stati messi in atto dei gesti concreti per riparare il male compiuto” (p. 15).
– “Per iniziare un percorso di perdono si richiede di fare verità in se stessi. Per questo è importante guardarsi dal ‘perdonismo’, dal perdono facile, a buon mercato, compiuto a scapito del riconoscimento della gravità di quanto accaduto, divenendo in tal modo una nuova forma di ingiustizia e violenza” (p. 18).
– Il perdono “appartiene all’ordine del dono, dell’imprevedibile, può essere preparato, accolto, ma mai programmato. Perdonare rimane sempre una libera decisione di chi ha subito il male” (p. 31).
– Il perdono “può venir agevolato se si nota nell’altro un pentimento sincero, insieme a una esplicita richiesta di perdono, come espressione di rimorso interiore, e all’intenzione di espiare, rimediando al male compiuto… Il rimorso nasce dal riconoscimento della gravità del male compiuto, ma evidenzia nello stesso tempo la differenza tra la persona e ciò che ha fatto: la sua volontà di prendere le distanze dal male dice che ella è capace anche di bene” (p. 83).
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Effettivamente, c’è una voragine tra queste sagge considerazioni del gesuita Cucci è ciò che ha detto papa Francesco nell’intervista ad “Asia Times”, riguardo al terrificante recente passato della Cina – quello del maoismo e della “rivoluzione culturale” – e al suo ancora oppressivo presente:
“Non siate amareggiati, bensì in pace con il vostro cammino, anche se avete fatto errori…. Ogni popolo deve riconciliarsi con la propria storia quale suo cammino, con successi ed errori. E questa riconciliazione con la propria storia porta molta maturità, molta crescita. Qui utilizzerei la parola ‘misericordia’. È salutare per una persona provare misericordia per se stessa…
E direi la stessa cosa per un popolo: è salutare per un popolo essere misericordioso verso se stesso… accettare che quello è stato il proprio cammino, sorridere e andare avanti… Quando ci si assume la responsabilità del proprio cammino, accettandolo per quel che è stato, ciò consente alla propria ricchezza storica e culturale di emergere, anche nei momenti difficili”.
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Oggi è il novantenne cardinale Joseph Zen Zekiun, vescovo emerito di Hong Kong a levare con più forza la voce contro la linea adottata con la Cina da papa Francesco, tradotta in azione diplomatica dal cardinale Parolin. Ma già una decina d’anni fa non mancavano voci critiche molto argomentate contro i temuti cedimenti negoziali.
Una di queste voci era, ad esempio, quella di un missionario e sinologo del valore di Gianni Criveller, testa d’uovo del “Holy Spirit Study Center” di Hong Kong, osservatorio di prim’ordine della realtà cinese:
Ora però, nella curia di papa Francesco e nel suo nuovo corso diplomatico, queste voci critiche sono state messe ai margini. Non sono nemmeno più ascoltate.
È di due mesi fa l’esilio inflitto all’arcivescovo Savio Hon Taifai, segretario della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e quindi il cinese di più alto grado in curia, amico e sodale del cardinale Zen, spedito da Francesco nel mezzo del Pacifico con l’inopinato incarico di fare da amministratore apostolico dell’isola di Guam.
Fonte: Settimo Cielo