“L’economia è soltanto un falso problema. L’Europa sta venendo meno perché manca la fede”. Prima filosofo che parlamentare di lungo corso, e come si definisce lui una delle tante vittime della sconfitta europea che ha rinunciato alla sua identità, Rocco Buttiglione analizza così la Brexit che ha investito il Vecchio Continente e che sta interrogando nello sgomento i cosiddetti tecnocrati. “Bisogna ripartire dall’identità che ci accomuna, e l’identità vuol dire fede, ma vuol dire anche confini”.
Nella chiacchierata con la Nuova BQ sulla crisi dell’Europa, Buttiglione ricorda quanto ha appena detto in aula nel pomeriggio.
“Ho detto che una grande nazione con una grande storia esce dall’Unione Europea non per ragioni economiche, ma perché l’Europa ha rinunciato ad essere il luogo di una cultura. E il colmo dell’Europa è il ritrovarsi a vivere la propria identità in un luogo che non ha senso”.
Eppure i problemi sembrano essere altri: c’è chi scommette già su quale sarà il prossimo stato ad abbandonare e chi invece pensa che questa uscita avvantaggi Paesi come l’Italia.
Sono discorsi che lascio a chi ha il tempo di farli. Preferisco andare al cuore. L’identità europea che ho conosciuto io era una grande speranza capace di motivare i popoli che vivevano in una terra di libertà, di verità e di solidarietà.
Ma nessuna di queste speranze si è realizzata.
Dobbiamo ammettere che abbiamo perso la battaglia nonostante le tante vittorie. Siamo stati sconfitti.
A quale battaglia si riferisce?
Nel 2000 abbiamo perso la battaglia sulle radici di cristiani. E’ stata questa la sconfitta con la quale oggi possiamo inquadrare la Brexit. E, si badi, quando parlo di radici intendo anche quelle greco-romane oltre a quelle giudaico-cristiane.
Questa rinuncia ha fatto sì che l’Europa si sia svuotata come contenitore culturale. Basta farsi una domanda: che cosa abbiamo in comune noi europei? Che cosa ci è rimasto di condiviso? Come facciamo a parlare di solidarietà se siamo incapaci di guardare all’altro. Non scatta.
Solidarietà intesa nel senso di…
Nel senso della solidarietà tra gli Stati e non mi pare che possiamo certo parlarne in questa fase, che si traduce in una continua frizione socio-economica, ma anche mancata solidarietà dentro ogni singolo Stato.
In Gran Bretagna hanno scelto per essere meno solidali con gli altri Stati?
Ma la Gran Bretagna è spaccata in due, come tutti gli altri. Da un lato ci sono quelli che sono entrati nella rivoluzione digitale dall’altra chi non sa neppure le lingue.
Non le sembra un ragionamento un po’ snobistico
No, perché?
Perché è la stessa lettura che danno a Sinistra quando contrappongono il “volgo” che ha votato per il Leave e le elités che hanno scelto il remain.
No, chi ha votato per il leave ha semplicemente voluto dire: “Noi non ci sentiamo parte di questa comunità perché nessuno ci sta aiutando a trovare il nostro posto dentro il mondo della globalizzazione”. Il loro è un voto di disperazione.
Altro passo un po’ snobistico. C’è la corsa a dire che il popolo ha votato male e che certi strumenti, come il referendum, non vadano dati in mano al popolo. Eppure, i commentatori che lo dicono e lo scrivono sono gli stessi che celebrano il Referendum del ’46 Monarchia-Repubblica.
Capisco. Ma io faccio un ragionamento diverso. Machiavelli dice che il popolo vota sempre la cosa giusta quando le classi dirigenti spiegano quali sono le alternative e quando il popolo sceglie male non è colpa sua, ma delle classi dirigenti che hanno spiegato male un progetto…
…O che lo hanno attuato male.
Sì. Ecco perché il problema non è la Gran Bretagna, ma una classe politica nuova.
Si riferisce a questa classe di tecnocrati?
Vede, io sono molto prudente su questo perché chi accusa la politica di tecnocrazia vorrebbe al governo degli incompetenti.
Sta dicendo che non esiste un governo di elite tecnocratica.
Sto dicendo che sono venuti meno i grandi partiti popolari che sapevano parlare al tecnocrate e al barista sotto casa dando ad entrambi una ragione per condividere un progetto.
Ci faccia l’identikit di questa nuova classe politica, allora.
O partiamo da una politica che riconosca come radici cristiane significhi anche confini oppure non potrà mai esserci solidarietà.
Confini nel senso di aperti o chiusi?
Prima ci deve essere una solidarietà tra europei rispetto a quella con gli altri popoli.
E’ un ragionamento nazionalista, da lei non ce lo aspettavamo…
Siamo parenti, abbiamo una storia in comune. I cosiddetti tecnocrati vorrebbero un’Europa di tutti uguali a tutti, ma la cultura porta a differenza inevitabili che incidono. La nostra storia comune conta e non poco.
L’Europa agli europei?
Diciamo che in Europa hanno diritto a starci gli europei, poi possono essere accolti altri popoli, se nel bisogno, e soprattutto se c’è un rapporto di convenienza reciproca.
Non c’è un diritto illimitato. Radici cristiane vuol dire che ci sono delle porte. Il popolo inglese ha voluto dire di essere spaventato perché non ha in mano le chiavi per aprirle. Non per mancanza di generosità.
Lei sostiene però un governo, quello di Renzi, che nei fatti, sull’Europa ha una posizione molto simile a quella dei tecnocrati: porte aperte e ognun per sé.
Al governo ho detto infatti che è suo dovere porre fortemente la questione della cultura. Prima ancora di tutte le altre questioni, fosse anche l’approfittare di questa fase di incertezza.
Che sarebbero?
Il tema della guardia costiera europea è importante, così come quello delle opere infrastrutturali comuni, ma sono tematiche che lascio volentieri ai tecnocrati. I quali non potranno mai sapere una cosa.
Quale?
Che è indispensabile una radice culturale fatta di identità comune. E l’identità nasce dalla propria fede. Un’Europa senza fede non andrà lontano.
L’Europa di oggi ci ha imposto tutte quelle politiche anti-vita e anti-famiglia che stanno rivoluzionando l’antropologia sociale in un processo che sembra inarrestabile. Non sarà facile deviare il corso.
E’ difficile, ma indispensabile, nel 2000 con l’abbandono delle radici cristiane abbiamo iniziato una discesa inarrestabile. E’ in quel momento che abbiamo smarrito la nostra strada. Propongo di ripartire dal titolo 13 del Trattato di costituzione europea. Parla del contenuto culturale.
Ma l’Ue non ha competenze sulla cultura…
Ma può fare raccomandazioni agli Stati. Sogno che tutti i servizi pubblici televisivi si mettano in rete per raccontare la nostra storia del popolo europeo, con competenza, con passione.
Abbiamo una grande storia da raccontare. Di vittorie e di sconfitte. Si tratta di popoli i nostri che in comune hanno l’evangelizzazione.
Parliamo agli europei di come gli europei sono rinati alla fede davanti al comunismo, di come abbiamo saputo evitare una terribile guerra. La nostra è una storia di fede.
Lei è stata una delle vittime di questa Europa, però. Nel 2004 è stato “giubilato” da commissario europeo in pectore per aver detto che l’omosessualità è un peccato.
Io sono stato una delle vittime della sconfitta della battaglia delle radici cristiane. La mia battaglia è stata importante, ma ha fatto parte di una delle tante sconfitte che abbiamo subito.
C’è un aspetto che è fuori dal dibattitto di questi giorni, ma è decisivo: l’Islam e l’islamismo. E’ come se l’Europa che si ritrova senza Gran Bretagna ad Ovest stia ignorando che ci sia una minaccia ad Est.
L’Europa non deve avere paura di nessuno. Ma l’islamismo è un problema perché noi non abbiamo fede. Ci appaiono fortissimi per questo motivo, ma noi se avessimo una identità comune cementata dalla fede che ha animato la nostra storia non avremmo paura di questo Islam.
Da filosofo, quali sono i pensatori che indicherebbe per ripartire?
Mi vengono in mente don Luigi Giussani, San Giovanni Paolo II Papa e Augusto Del Noce. Di quest’ultimo vorrei ricordare un concetto che ripeteva spesso: “Stiamo vivendo la crisi dell’irreligione occidentale che prima dissolve la Chiesa, poi la Nazione e infine dissolverà la persona”.
Fonte: La NBQ