«Nel 2015 si raggiungerà per la prima volta l’aumento di oltre un grado della temperatura terrestre rispetto all’età pre-industriale»; «Nel 2014 record di concentrazioni di gas serra nell’atmosfera con l’anidride carbonica (CO2) che ha raggiunto le 397,7 parti per milione (ppm)». Due annunci soltanto nella giornata di ieri, rispettivamente da parte del Met Office (l’Ufficio meteorologico britannico) e dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (Omm).
Ed è solo l’inizio, perché con una liturgia ormai collaudata man mano che ci si avvicina alla annuale Conferenza internazionale sul clima (quest’anno a Parigi a partire dal 30 novembre) gli annunci di catastrofi prossime venture vanno in crescendo, per creare la massima pressione possibile sui rappresentanti dei governi chiamati a trovare un accordo.
Ma un accordo su cosa? La pretesa è quella di ridurre le emissioni di CO2 in modo da contenere l’aumento delle temperature per il 2100 entro i due gradi dall’inizio dell’era industriale. Sono ormai venti anni che ci provano invano (la Conferenza di Parigi è la Cop21, ovvero la 21esima Conferenza fra le parti) e possiamo dire meno male. Perché i presupposti scientifici che sono alla base di questi mega-negoziati sono assolutamente infondati checché se ne dica.
Basti semplicemente pensare all’obiettivo che ci si prefigge: evitare che la temperatura aumenti più di due gradi entro 80 anni. A questo scopo vanno bloccate le emissioni di CO2, chi dice del 30, chi del 50, chi del 70%, chi del tutto.
Un’affermazione di questo genere implica che si sappia precisamente: 1. come funziona il clima e i suoi cambiamenti (che peraltro sono assolutamente normali e naturali), quali sono i fattori che lo determinano e come questi interagiscono fra di loro; 2. In che misura contribuisca l’anidride carbonica, ovvero di quanto aumenta la temperatura a un tot aumento di concentrazione di CO2.
Ebbene entrambe queste condizioni sono sconosciute. Il clima è un sistema complesso in cui intervengono moltissime variabili, le cui correlazioni sono ancora tutte da scoprire. Tanto per fare un esempio: tutti sono d’accordo nel ritenere gli strati nuvolosi determinanti per la temperatura terrestre, ma nessuno è ancora riuscito a stabilire in che misura e in che direzione (raffreddano perché coprono il sole o riscaldano perché formano una cappa che trattiene il calore?).
Quanto poi all’anidride carbonica assistiamo da anni alla criminalizzazione di un elemento essenziale per la vita, trattato come se fosse un inquinante. Incide sicuramente sul clima, ma in che modo e in che misura nessuno è riuscito ancora a stabilirlo con precisione. Inoltre non è neanche il principale gas serra, essendo questo il vapore acqueo che rappresenta il 70-80% di tali gas la cui funzione è tenere calda la terra.
E infatti anche i più fanatici sostenitori della tesi del Riscaldamento globale antropico (cioè provocato dall’uomo) si guardano bene dall’indicare con precisione una concentrazione di CO2 in atmosfera tale da impedire il presunto catastrofico aumento delle temperature.
Fissare perciò un obiettivo di massimo due gradi di aumento delle temperature è affermazione scientificamente senza senso, che oltretutto si basa su dati platealmente discutibili. Prendiamo l’annuncio dato ieri dal Met Office e citato in apertura: si dice che dall’inizio dell’era industriale (1750 circa) la temperatura della terra è aumentata di 1,02 gradi (con un margine di errore di 0,11 gradi, vale a dire che l’aumento potrebbe essere ben inferiore al grado annunciato).
Ebbene, come è possibile stabilire un aumento preciso addirittura al centesimo di grado quando non esistono serie omogenee di dati che vanno così indietro nel tempo? E quando anche oggi stabilire la temperatura globale è un’impresa visto che la copertura delle stazioni che misurano la temperatura sul terreno è gravemente carente (in media ce ne è una ogni 150mila km quadrati, praticamente inesistenti in Africa e Antartide)?
Si tratta di cifre che vengono dedotte da medie, stime, proiezioni, che hanno certo un loro valore scientifico, ma non possono essere spacciate per realtà indiscutibile, e soprattutto base per scelte politiche ed economiche importanti.
E se i dati reali sono già così precari, figurarsi le proiezioni sul futuro che vengono fatte su modelli al computer. I quali sono del resto già stati smentiti, perché da 18 anni e 9 mesi non si registrano ulteriori aumenti della temperatura globale (dati Nasa), cosa che ha già fatto ricredere alcuni scienziati finora sostenitori della tesi del Riscaldamento globale antropogenico.
C’è dunque cattiva scienza alla base di quelle che vorrebbero essere scelte politiche obbligate, le cosiddette “politiche per il clima”. Ma non è solo questo il motivo per cui inevitabilmente da venti anni falliscono i negoziati.
C’è anche un motivo economico. Perché l’ideologia ecologista dominante esige che venga bloccata l’economia dei paesi industrializzati – ritenuti i principali responsabili delle emissioni di CO2 a causa dell’uso massiccio dei combustibili fossili – i quali oltretutto devono anche risarcire i paesi poveri, vittime dei cambiamenti climatici.
Non a caso uno dei punti in discussione a Parigi sarà la costituzione di un fondo annuale di 100 miliardi di dollari a tale scopo. Questa era anche la logica del Protocollo di Kyoto – firmato nel 1997, entrato in vigore nel 2005 e scaduto nel 2012, poi prorogato fino al 2020 – per cui soltanto i paesi industrializzati si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra.
Ma ormai le maggiori emissioni di CO2 arrivano dai paesi emergenti, come Cina e India, che ovviamente non hanno alcuna intenzione di frenare il loro sviluppo per far contenti WWF e Greenpeace. E anche Europa e Stati Uniti devono fare i conti con la difficoltà delle loro economie: non si può chiedere di rendere tutti i popoli più poveri in nome di pretese scientifiche tanto discutibili.
Per i paesi poveri poi un accordo come quello voluto dalle elites ecologiste sarebbe tutt’altro che favorevole: è una pericolosa illusione attribuire la povertà ai cambiamenti climatici provocati dai paesi ricchi. La verità è che è il sottosviluppo a rendere vulnerabili le popolazioni davanti agli eventi atmosferici estremi, che peraltro ci sono sempre stati e che malgrado i luoghi comuni dominanti non sono cambiati.
C’è bisogno di politiche per lo sviluppo serie, perché i fondi a pioggia a mo’ di risarcimento servono soltanto ad alimentare la corruzione di quanti stanno al potere, che non a caso sono i più accesi sostenitori di accordi sul clima.
Ci avviciniamo dunque a Parigi rassegnati a subire nelle prossime settimane una serie di annunci “terroristici” su quanto ci potrà capitare a causa dei cambiamenti climatici. E come sempre ci sono marce, manifestazioni, iniziative in cui si dovrebbe dimostrare la sensibilità del popolo per questi argomenti.
Quest’anno però c’è una novità: ovvero la presenza istituzionale della Chiesa cattolica a sostegno delle politiche per il clima. Sulla spinta dell’enciclica Laudato Sii è partita una mobilitazione di diocesi e comunità in vista di Parigi; un appello dei vescovi di tutto il mondo è stato lanciato il 26 ottobre (ma non si sa chi l’abbia effettivamente firmato); 230 organizzazioni cattoliche mondiali hanno proclamato novembre il “mese del clima”, con petizioni, pellegrinaggi e iniziative varie che culmineranno con la marcia nella capitale francese il 29 novembre.
Sembra quasi che ora sia la Chiesa a volersi mettere alla testa del movimento ecologista mondiale, e un modello lo ha dato il Vicariato di Roma che domenica scorsa ha organizzato la Marcia per la Terra (salutata anche dal Papa all’Angelus) raccogliendo l’adesione di decine di organizzazioni tra cui WWF, Greenpeace, Legambiente.
È una sorta di ubriacatura ecologista che, aldilà delle intenzioni, omologa anche i cattolici all’ideologia dominante. A dire il vero non si può essere neanche tanto sorpresi: dopo aver visto nel Sinodo che voglia di piacere al mondo c’è tra i pastori su matrimonio e famiglia, figurarsi su un tema come l’ambiente.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana