La notizia è deflagrata in un silenzio che non rende giustizia all’eccezionalità all’evento: per la prima volta, dopo anni di coerente, costante e ferma contrarietà, la dirigenza della CEI ha cambiato rotta in tema di difesa della famiglia appoggiando, di fatto, le unioni civili. «È un sostegno prudente, senza declamazione – osserva Fabio Martini, esperto retroscenista de La Stampa – ma davvero senza precedenti quello che la Chiesa italiana sta riservatamente garantendo al Governo e al Pd sul progetto delle unioni civili in discussione al Senato […] Il segretario della CEI, monsignor Nunzio Galantino, ha lasciato che si aprisse un canale con i legislatori dei partiti più importanti. A cominciare dal Pd».
Per la verità già da giorni, e su diversi siti web – a partire da La Nuova Bussola Quotidiana –, si dava quasi certa la voce di un accordo di fatto fra la CEI e la maggioranza di governo sulle unioni civili, ma la conferma de La Stampa elimina ogni dubbio per chiunque non abbia i paraocchi.
A questo punto l’interrogativo col quale i cattolici debbono fare i conti è lo stesso di Lenin (1870-1924): «Che fare?». La prima tentazione – onestamente – sarebbe quella di prendersela con chi o con coloro hanno reso possibile quella che ha tutto il sapore di una resa della Chiesa italiana alla cultura dominante: tentazione umana, troppo umana e che non tiene conto del fatto che a giudicare ogni azione e ogni anima, quando sarà il momento, ci penserà Qualcuno che non abbisogna di consigli.
Allo stesso modo, ritenere quella per la famiglia una battaglia già persa – altra tentazione umana, troppo umana – non rende onore all’importanza della posta gioco e neppure alla dignità di quanti, siccome il gioco è duro, smettono di giocare. Siamo dunque ancora all’interrogativo di prima: «Che fare?».
Una risposta che fa al caso nostro viene da Giovannino Guareschi (1908-1968), il quale, una volta, acutamente osservò: «Quando i generali tradiscono, abbiamo sempre più bisogno della fedeltà dei soldati».
Bene, benissimo, perfetto. Ma che cosa comporta, per stare a noi, la «fedeltà dei soldati»? Per comprenderlo occorre soffermarsi, sia pure brevemente, sul concetto di fedeltà: a cosa? Anzitutto, per i cristiani, al Vangelo.
La fedeltà evangelica comporta, a sua volta, molti aspetti, fra i quali certamente occupa un posto di primo piano l’invito di Gesù ad evitare ogni ambiguità: «Sia il vostro parlare: sì, sì, no, no!”» (Mt 5,33-37).
Allorquando fosse quindi accertata la nuova tendenza, da parte dei generali, ad un parlare ambiguo – costellato dì «ma», «se», «però» -, i soldati avrebbero una volta di più il primario dovere di restare allineati sulle posizioni di sempre, in attesa che la ferita del tradimento – per restare all’immagine di Guareschi – smetta di sanguinare.
Perché questo accada occorre tempo, ma anche la consapevolezza di non essere soli: come in ogni esercito, anche in quello cattolico i soldati semplici, fra i quali non vi sono solo laici ma anche tanti valorosi sacerdoti, sono molti più dei generali. Lo sbandamento di qualche generale non deve dunque spaventare più di tanto.
La «fedeltà dei soldati», però, è anche altro. E, scendendo ad un piano non confessionale, si traduce non solo in una chiarezza di linguaggio, ma anche in vero e proprio coraggio.
Già, perché ci vuole coraggio per non indietreggiare in una battaglia, quella per la famiglia, nella quale il nemico, giocando d’astuzia, fa di tutto – controllando i mass media e diffondendo sondaggi tendenziosi, vantando sicurezza e seminando pregiudizi – per farti sentire circondato.
Ci vuole coraggio tanto più quando chi dovrebbe infonderne trema, e indietreggia. Ecco che allora per essere fedeli occorre anzitutto essere coraggiosi. Ma c’è dell’altro: la «fedeltà dei soldati», in momenti difficili, si vede anche, se non soprattutto, con la capacità di non negoziare.
E quando un generale, dimenticando i suoi gradi e la sua missione, ripiega sul compromesso giustificando la propria scelta come il solo rimedio ad una rovinosa sconfitta, i soldati hanno il dovere di tenere gli occhi aperti e di rendersi conto che la rovinosa sconfitta è già tutta in quel compromesso.
E questo non perché il campo di battaglia – anche culturalmente parlando – sia un bel posto dove soggiornare e dove intrattenersi il più a lungo possibile. Per capirci, ciascuno di coloro che il 20 giugno ha scelto di recarsi in piazza san Giovanni, e che altre volte ha manifestato con le Sentinelle in Piedi o si è attivato per promuovere conferenze e convegni avrebbe certamente avuto di meglio da fare: eppure tutte quelle persone – quei soldati – hanno scelto la determinazione, l’impegno, la testimonianza. In una parola: fedeltà.
Non per chiusura preventiva o ignoranza rispetto all’arte raffinata del dilago, ma perché consapevoli che, quando in gioco vi sono la definizione di famiglia e matrimonio nonché il bene dei figli, ogni tentativo di dialogo, di fatto, è automaticamente tradimento.
Perché si può certamente discutere sulle modalità della battaglia, su come sia più giusto portarla avanti.
Ma non c’è passo indietro che sia giustificabile: neppure uno. E se a fare un passo indietro, ahinoi, è qualche generale significa che, passato il tempo dei pastori impavidi, viene l’ora delle pecore coraggiose.
Fonte: il blog di Giuliano Guzzo