Il referendum sulle nozze gay o “egualitarie”, come le ha biecamente definite il Corsera, segna un’altra tappa del declino della civiltà europea, salutato incredibilmente con gaudio esiziale dagli estensori del pensiero unico. Lanciarsi qui in un’altra denuncia degli abomini dell’ideologia gender sarebbe forse inopportuno, mentre si collezionano sconfitte. Quella che vorrei proporre, allora, è una strategia di sopravvivenza in questi tempi duri.
Noi cristiani sappiamo due cose per certo: come tutto è cominciato (la storia della salvezza narrata dalle Scritture) e come tutto andrà a finire (la seconda venuta di Cristo). Quel che accade nel mezzo, sebbene sottilmente guidato dal filo della Provvidenza, è il regno della libertà umana, che come sapeva bene Agostino può essere messa al servizio di Babilonia o della Città di Dio.
Questa consapevolezza non deve produrre due opposti eccessi: né una sorta di fideismo inerte, né un irredimibile pessimismo storico.
Il bello di Gesù è che ci ha dato la soluzione in anticipo, annunciandoci le tribolazioni ma suggerendoci anche la condotta: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16).
La vita da testimoni non è una passeggiata di piacere, soprattutto perché i cristiani non si limitano a dichiarare la Verità, usandola come strumento di offesa (come piace tanto al demonio, non a caso Grande Accusatore), ma ne fanno via di correzione e redenzione, attraverso la Carità.
È questo che il mondo non può perdonarci: amare senza bisogno di negare la realtà, come fanno gli “amori” abortiti che, non riconoscendo il peccato, hanno ingrigito anche la bellezza.
Senza costituirsi in sette fondamentaliste e senza l’arrendevolezza del cattolico “adulto”, che come tanti adulti confonde la maturità con la disperazione, si tratta di essere “semplici”, ossia candidi, saldi, coerenti, per dimostrare che si può vivere come propone il Vangelo, ma anche circospetti, perché la trasparenza da sola si espone alle imboscate degli avversari scaltri.
Anche se in questo mondo siamo destinati a vedere frustrata la nostra «buona battaglia», anche se nella storia le due città agostiniane si trovano sempre mescolate, non siamo chiamati che a rendere testimonianza di una vittoria che Cristo ha già conseguito per noi: «Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio» (At 20, 27), dice San Paolo agli Efesini nel momento in cui si congeda da loro.
Certo, non si può fare a meno di deplorare che questo Vecchio Continente, terra di elezione di una prospera cultura giuridica, filosofica, artistica, sia eroso da una triste rovina che se da un lato, nel classico rivolgimento che caratterizza le vicende del cristianesimo, apre nuovi orizzonti ad Asia, Africa e Sud America, dall’altro lascia un profondo vuoto proprio in quelle conquiste di civiltà che questi altri mondi non hanno mai eguagliato.
Ma quante volte i cristiani hanno avuto il senso che tutto stesse per finire? Durante le persecuzioni dei romani, poi al crollo dell’Impero d’Occidente, al tempo delle scorribande di Arabi e Ottomani, poi ancora con la Rivoluzione francese o il Risorgimento, le guerre mondiali e il comunismo sovietico.
Tutto sommato, per parafrasare una canzone, noi siamo ancora qua. Non significa che tutto vada bene e che non siamo di fronte a una delle più subdole e per questo una delle più minacciose offensive contro la fede; ma ancor più conta lo star saldi, conta l’opporre l’esempio e le ragioni a un’epoca che prima o poi, forse troppo tardi, sarà costretta ad ammettere a se stessa i suoi errori.
Nel passo di Matteo che citavo sopra, c’è una conclusione che non nascondendo le future sofferenze, trasmette anche uno straordinario conforto: «E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato».
Se Gesù ha già vinto tutto questo male, sforziamoci di donare la nostra vita perché gli uomini non rovinino troppo il suo capolavoro.
Al termine della sesta epoca della storia, che significativamente per Agostino comincia con l’Incarnazione e finisce solo con l’Apocalisse, ci sarà «il nostro sabato, la cui fine non sarà un tramonto, ma il giorno del Signore, quasi ottavo dell’eternità, che è stato reso sacro dalla Risurrezione di Cristo perché è allegoria profetica dell’eterno riposo non solo dello spirito ma anche del corpo.
Lì riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla fine. Infatti quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine?».
articolo pubblicato su Campari & De Maistre