Domani i vescovi della Bosnia ed Erzegovina incontrano in Vaticano il Papa per la loro visita ad Limina. L’appuntamento si svolge a meno di 3 mesi dal viaggio di Francesco a Sarajevo, in programma per il 6 giugno. Sulle attese, Federico Piana ha intervistato mons. Tomo Vuksic, ordinario militare:
R. – Le nostre aspettative sono veramente proprio quelle che ha detto lo stesso Papa nel giorno in cui ha annunciato la sua visita a Sarajevo, quando disse: “Vado a Sarajevo per incoraggiare i fedeli cattolici, per suscitare i fermenti del bene, contribuire al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia”.
Questo è un riassunto bellissimo che ha fatto lo stesso Papa e noi, che siamo lì, che viviamo lì, preghiamo e ci auguriamo una buona riuscita di queste intenzioni.
D. – Che Chiesa troverà il Papa, martoriata da anni di guerra? Prima della guerra c’erano 800 mila cattolici, dopo la guerra poco più di 400 mila …
R. – Troverà una Chiesa che lo ama, troverà una Chiesa che veramente è felice per la sua visita. Lei diceva “martoriata”: un termine che non userei, non perché non sarebbe vero – essere martiri porta con sé un po’ di più di quello che viviamo noi.
Sì, noi siamo una Chiesa sofferente, forse andrebbe meglio questa espressione rispetto a “martoriata”: sofferente. Però, è una caratteristica della Chiesa da quelle parti, che l’accompagna da secoli. C’è stato il periodo ottomano, in cui si è sofferto molto.
Poi è venuto il periodo delle due Jugoslavie, soprattutto del comunismo, quando la Chiesa di nuovo ha sofferto; poi è venuto il periodo di quest’ultima guerra, quando si è sofferto ancora di più.
Poi, quello che è avvenuto dopo l’ultima guerra è un altro genere di sofferenza – grazie a Dio – rispetto alla sofferenza sperimentata durante la guerra … Così, siamo una Chiesa quaresimale, cioè è una situazione che la Provvidenza ci ha riservato e il nostro compito è testimoniare in questa situazione.
Ci sentiamo missionari: siamo nati lì, siamo stati messi lì dalla Provvidenza e grazie a Dio si riesce anche a vivere e testimoniare in queste situazioni.
D. – Le sfide che ha la sua Chiesa lì, quali sono?
R. – Le sfide sono la questione demografica che sta nel fatto che molti profughi, vittime della guerra, non sono ritornati. Diverse forze politiche, sociali, locali, internazionali per le quali sarebbe stato d’obbligo creare una possibilità di rientro, purtroppo non l’hanno fatto e molti profughi non sono riusciti a tornare, e la conseguenza di questo è molto grande per la Chiesa cattolica, perché ha perso diverse centinaia di migliaia di fedeli nel periodo del dopoguerra, per mancanza di lavoro, per ragioni economiche e diverse altre ragioni.
E’ in atto un processo di lenta ma nuova emigrazione verso l’Occidente, soprattutto di giovani. La sfida è pure la questione della denatalità, cioè l’aumento del numero delle morti rispetto a quello delle nascite e dei battesimi. E naturalmente la sfida, come in ogni parte della Chiesa, è il nostro lavoro pastorale.
D. – Il rapporto con le altre religioni – con i musulmani – e anche con l’ecumenismo … fate un lavoro prezioso … Che bilancio possiamo fare?
R. – Il dialogo tra le comunità religiose esiste: esiste veramente. Soprattutto quello quotidiano, a livello esistenziale, a livello di vita quotidiana. Il dialogo non soltanto con le istituzioni o con i leader religiosi, ma tra gli uomini, tra la gente, tra i fedeli di diverse comunità che si incontrano praticamente ogni giorno per strada, nei bus, nei mezzi di trasporto, nei luoghi di lavoro … E’ una convivenza quotidiana tra le persone di diverse religioni. Il dialogo … forse la cosa più importante è questa!
Testo proveniente dal sito di Radio Vaticana