Nel gennaio corso ero in viaggio per lavoro e soggiornavo in un piccolo albergo di una città universitaria. Mi piace pensare che in genere sto più attenta a ciò che mi circonda, ma nevicava così tanto e soffiava un vento così forte che non sarei riuscita a sentire i suoi passi neanche se avesse camminato pesantemente. È avvenuto tutto molto rapidamente.
Avevo aperto la porta, mi sono girata per chiuderla e lui era lì, un uomo grosso. La mia prima reazione istintiva non è stata di paura, ma di confusione. In un istante, mi ha dato un pugno in faccia.
Non ricordo di essere stata trascinata fuori dalla stanza, ma sono stata ritrovata nella tromba delle scale. Non so perché – forse stavo cercando aiuto.
I risultati dei test per HIV, gonorrea, clamidia, sifilide, erpes e dozzine di altre cose di cui non avevo neanche mai sentito parlare sono risultati negativi.
Il mese successivo dovevo lavorare su una nave da crociera. Colpita dalla dissenteria il secondo giorno e non riuscendo a migliorare con gli antibiotici, sono stata portata in ospedale quando ci siamo fermati a Cartagena, in Colombia. Potendo avere un’ostruzione intestinale, sono stata sottoposta a ultrasuoni. E abbiamo visto il fagiolino – mio figlio. Buon San Valentino.
Tornata sulla nave, ho raccontato ai medici una versione abbreviata della mia storia, che mi ha fatto mettere in quarantena. Temevano un tentativo di suicidio? Un pericolo di crollo psicotico che mi avrebbe fatto correre nuda sui ponti della nave? Chi lo sa…
Quello che so è che ho trascorso la settimana successiva ascoltando un team di medici e infermieri molto ben intenzionati che mi consolavano dicendo come sarebbe stato “facile” “far fronte alla situazione” – uccidere il bambino. Per ricominciare. Facile???
Ho discusso di molte cose durante le telefonate transatlantiche a casa piene di lacrime di quella settimana, ma la possibilità di “far fronte alla situazione” non è mai uscita dalla mia bocca. O da quella di mio marito.
Quando gli ho detto che era incinta, ha detto con la sua voce calma: “Va bene. Va bene, va tutto bene”.
Gli ho chiesto: “Cosa intendi con ‘Va tutto bene’?”
“Intendo che possiamo affrontarlo. Ce la faremo. Andrà bene. E… mi piacciono i bambini. Avremo un altro bambino. Tesoro, questo è un dono. È qualcosa di meraviglioso che viene fuori da qualcosa di terribile. Possiamo farcela”.
Ho iniziato a provare gioia per la nuova vita che portavo dentro di me, che fioriva sotto il mio cuore. Quel nuovo amore che cresceva così forte schiacciava ogni trepidazione o ansia. E mio marito aveva ragione. Potevamo farcela.
La mia ultima mattina sulla nave ho detto al team che si era preso cura di me: “Se mai ripenserete a tutto questo, se vi chiederete cosa mi sia successo, pensate che ho avuto un bellissimo bambino nell’ottobre 2014”.
La loro reazione… l’espressione sui loro volti… La dottoressa che mi aveva spinto all’aborto con più decisione degli altri aveva le lacrime agli occhi. Per la prima volta, ho pensato come Dio possa usare questo incubo per cui ero passata. Usare ME.
Vivo nel North Carolina. Il ginecologo che aveva fatto nascere i miei due ultimi figli correva per le primarie repubblicane al Senato degli Stati Uniti, parlando tutto il tempo con persone che lo sfidavano dicendo “E nei casi di stupro?”
Mio figlio avrà una voce. Fino a che non potrà usarla, è mia responsabilità – mio privilegio – parlare per lui. Questa è la mia storia.
Durante la mia gravidanza, sono entrata e uscita dall’ospedale un paio di volte – più entrata che uscita. Ho avuto la gestosi, ipertensione e crisi incontrollate. È stato terribile quando, alla 26ma settimana di gestazione, mi hanno ricoverata dicendo che avrei potuto partorire quella notte – terribile perché volevo disperatamente che mio figlio vivesse!
Abbiamo superato quel momento di terrore. Dovevo stare a letto a riposo, ma potevo farlo a casa. Ogni settimana che passava era un passo avanti, sapendo quanto saremmo stati felici una volta che fosse stato al sicuro tra le mie braccia. A livello emotivo, me la stavo cavando molto bene.
Abbiamo lavorato con un team medico molto impegnato. È una questione di fidarsi completamente. Mi ero sentita del tutto fuori controllo dall’aggressione di gennaio. Otto mesi e mezzo prima il mondo si era capovolto e non si era ancora raddrizzato – fino a quando è nato mio figlio.
Non è una cosa negativa. Mi fa inginocchiare, mi trattiene dall’atteggiamento arrogante e sicuro di sé che adotto tanto rapidamente. Il nostro bambino può essere stato concepito durante una violenza, ma è un dono di Dio – un dono splendido che ha riempito un vuoto nella nostra famiglia del quale non avevamo mai percepito l’esistenza. Ci ha resi completi.
Sono molto grata per essere entrata in contatto con altre donne diventate madri dopo uno stupro. Siamo sopravvissute. Non vittime. Mio figlio mi ha guarita.
La pressione da parte della comunità medica perché abortissi mi ha fatto veramente aprire gli occhi. Troppe volte mi è stato detto come sarebbe stato “semplice” e quanto rapidamente avrei “ripreso la mia vita” una volta che la questione fosse stata “sistemata”.
Mi spezzava il cuore sentirmelo ripetere in continuazione. Anche alcuni amici pensavano che tenere il bambino fosse un errore, che non sarei riuscita a gestire le cose a livello emotivo.
Ogni volta che noi madri sopravvissute a uno stupro condividiamo le nostre storie veniamo rafforzate e rafforziamo le altre. E chi sa quali vite potrebbero essere risparmiate?
Jennifer Christie è moglie e madre di cinque figli, e blogger per www.savethe1.com.
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Fonte: Aleteia