Pupi Avati: «Il mio matrimonio dura da 49 anni. Se ti capita una cosa bella non la racconti a nessuno?»

È difficile definire Pupi Avati. Il regista bolognese, amante del jazz, cattolico praticante, ex dipendente della Findus, va a messa tutti i giorni ed è sposato da quasi mezzo secolo. Non ha il profilo dell’intellettuale, tanto meno quello di sinistra. «Qualcuno mi considera un conservatore rimbambito», scherza lui con tempi.it, «io mi impegno soltanto a non essere anticonformista».

Sicuramente non è conforme a chi si pretende anticonformista. Dal suo esordio al cinema sul finire degli anni ‘60 a oggi ha girato decine di film. Di ogni genere. I confini dei suoi quarantasei anni di carriera sono tracciati dalla sua pellicola d’esordio, “Balsamus, l’uomo di Satana”, horror padano vietato ai minori di 18 anni (protagonista un nano eccentrico dedito alla magia e alla deflorazione di vergini), e l’ultima opera, “Un matrimonio”, serie televisiva improntata sull’indissolubile bellezza dell’istituzione, che ha come protagonisti due sposi e la loro famiglia negli anni del dopoguerra.

A conferma dei suoi meriti, la storia di Francesca e Carlo, in onda su Rai 1 da qualche domenica, sta ottenendo il primato di ascolti in prima serata, «con una media», osserva Avati, «di quasi cinque milioni di italiani».

Lei ha detto che a fare questo film lo ha spinto il suo matrimonio. Perché ha deciso di metterlo in mostra?
Se ti capita una cosa bella non la racconti a nessuno? La dici a tutti quelli che conosci. Io ho ormai settantacinque anni. Ho pensato di avere una storia che fosse abbastanza ricca di fatti e densa per essere raccontata. Un matrimonio. Il mio dura da 49 anni. Di esperienza ne ho abbastanza per raccontare che cos’è, specialmente a chi non lo conosce, o ne ha un’idea scorretta.

A chi si riferisce?
Alle persone sposate che magari in questo momento stanno vivendo difficoltà e pensano che lasciandosi le risolveranno. Io penso che la vita è complicata e vivere con un’altra persona lo è quasi sempre, per tanti motivi. Ma vivendo il matrimonio ho capito che dare continuità, mantenere le promesse e trovarsi dopo tanti anni con la stessa persona, che è quella che ti conosce di più, a spartire gli anni della propria vecchiaia, sia una grande opportunità. Non una penalizzazione.

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Ha scritto un film per difendere il matrimonio tradizionale?
Volevo raccontare una storia. Poi è vero che tutte le storie hanno un fine. Per esempio i miei film horror erano finalizzati a fare paura. In anni recenti, però sono approdato a un atteggiamento di responsabilità. Il fine dei miei film è diventato far conoscere qualcosa agli altri anche perché possa essere d’aiuto.

Perché pensa sia utile conoscere la storia di due sposi?
Perché molti non sanno cosa sia essere sposati. Oggi i matrimoni sono calati, principalmente quelli religiosi, e sono stati sostituiti da unioni che spesso durano poco e lasciano i figli senza una madre o senza un padre.

La famiglia fondata sul matrimonio è la parte fondante della società, forma i cittadini, e perciò nessuno può felicitarsi di una situazione del genere. Per questo mi premeva di dire ciò che personalmente ho vissuto.

 

Parlare di matrimonio attraverso la televisione e non il cinema: perché?
La televisione è in ogni casa e può davvero raggiungere tutte le famiglie italiane. Pensiamo a cosa significhi questo potere. Siamo sommersi dalla negatività dei media, da una propaganda uniforme che, non a caso, colpisce la famiglia e il matrimonio.

Io mi chiedo: come si fa a proporre sperimentazioni su tanti tipi di famiglia, che sappiano non funzionare, quando ce ne è una, formata da uomo e donna, che funziona da millenni? Perciò c’è bisogno di mostrare questo in televisione, soprattutto ai giovani. E inoltre bisogna raccontare la storia di persone che sono riuscite ad affrontare le difficoltà della vita senza scappare. Il contrario di quanto accade adesso.

In che senso?
Ho un sacco di assistenti che lavorano con me, i ragazzi soprattutto, che vengono a fare stage, che molto spesso hanno genitori separati. E soffrono di questa situazione. Vedendomi a volte come il loro psichiatra, il loro medico, il loro parrocco, si confidano con me. E in genere mi dicono che la cosa che avrebbero desiderato di più è che i propri genitori fossero rimasti uniti.

Non riconoscere questo desiderio, è positivo? È responsabile? Non penso. Viviamo in una società di irresponsabili. Non solo i politici, sarebbe troppo facile. Tutti noi lo siamo un po’. Tornare a quell’atteggiamento di responsabilità nei confronti del prossimo ci farebbe soltanto bene.

Anche la Chiesa per anni si è allontanata dalla responsabilità che è centrale nel Cristianesimo. Per fortuna, papa Francesco oggi ha posto l’attenzione della Chiesa sulla famiglia.

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Fra gli artisti italiani è un po’ una anomalia.
Forse perché provengo da una cultura contadina. Mio padre è morto quando ero piccolo, e sono stato allevato ed educato da mia madre. E per questo non ho paura di dire cose che, per come ragiona il mondo, sono totalmente impopolari, o addirittura banali. Mi accontento della semplicità, della quotidianità, della normalità, delle persone comuni. Dichiararlo fa sì che io sia un po’ messo in disparte.

Non sono come gli anticonformisti, come quelli che vogliono dimostrare la loro stravaganza e poi non riescono a realizzare sé. Non sono come quelli che dovrebbero essere anticonformisti e non lo sono affatto, a partire proprio dall’idea di famiglia.

 

Da parte del cinema italiano c’è un boicottaggio nei suoi confronti, in quanto cattolico?
Non voglio trovare scuse, non ho mai incolpato altri per gli insuccessi della mia carriera. Se un mio film è andato male non ho mai pensato che fosse colpa di altri.

Certo è che dichiarare la propria fede, raccontare di essere praticante, dire che vado in chiesa tutti i giorni e che mi siedo sulla panca dove stava mia madre, e farlo apertamente, qualche difficoltà può creartela.

Tanto più se dico che non mi importa nulla dei problemi che Enrico Letta ha con Matteo Renzi. Alcune persone ti considerano una vittima della religione, un ingenuo, e a volte, come ho già detto, un “conservatore rimbambito”.


Quale relazione c’è fra essere cristiani e artisti?
Parlo per me. Io credo che ogni uomo sia scelto, anzi “prescelto”, e che la fede rende sacra ogni persona. L’io narrante dei miei film condivide con i personaggi un comune desiderio di felicità. La mia piccola creatività dipende da questa visione della vita.

Per questo certi laici mi stupiscono. Sembrano non avvertirlo, sembrano non vedere qualcosa che li trascende che è straordinariamente più grande di noi. A volte li invidio, perché sembra che non hanno questa esigenza, mentre io non posso farne a meno. A volte li compatisco.

Per me la bellezza è lo spartire, il condividere, che poi significa amare, cioè quello che dice il Vangelo, che è una rivoluzione, in un mondo che solo a parole si dichiara solidale e poi nei fatti è traditore.

Francesco Amicone

articolo pubblicato su Tempi.it

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