Lo spirito della Grotta di Betlemme – di Roberto De Mattei

Betlemme è una piccola cittadina della Palestina, a circa 770 metri di altezza sopra il livello del Mediterraneo. Il suo nome in ebraico, significa “città del pane”. «Ecco – scrive Dom Guéranger – perché il Pane vivo disceso dal cielo (Gv 6, 41) l’ha scelta per manifestarvisi. I nostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti (ivi 6, 49); ma ecco il Salvatore del mondo che viene a sostenere la vita del genere umano per mezzo della sua carne che è veramente cibo (ivi 6, 56)».

 

Il profeta Michea aveva annunciato che in questa città della tribù di Giuda sarebbe nato il Salvatore del mondo (5, 2 segg.). E Isaia aveva profetato: «Dal tronco di Isai, cioè dalla famiglia di Davide, un giorno spunterà un germoglio e dalla sua radice fiorirà un virgulto, ed in quel giorno la radice di Isai sarà qual vessillo ai popoli» (Isaia 11, 1-10).

All’epoca della nascita di Gesù, in Palestina, soggetta a Roma, regnava Erode, ma con un’autorità limitata. Vero sovrano era l’Imperatore Ottaviano Augusto, all’apice della sua potenza e del suo prestigio. Quando Augusto stabilì un censimento per l’Impero, san Luca attesta che «tutti andavano a farsi registrare ciascuno nella propria città» (Lc 2,3) e siccome Giuseppe era «della casa e della famiglia di Davide, ascese nella Giudea alla città di Davide, che si chiama Betlemme» (Lc 2, 4).

Giuseppe rispettava la legge costituita, anche se mai l’avrebbe anteposta alla legge divina. Quando gli giunse la notizia del censimento non ebbe dubbi sul suo dovere di recarsi nella città natale di Betlemme e di farsi accompagnare nel viaggio, come racconta san Luca, da «Maria sua sposa, la quale era incinta» (Lc 2, 5).

San Luca usa il termine “ascese” perché il viaggio per raggiungere Betlemme era lungo e faticoso, specialmente d’inverno, durante la stagione delle piogge. Da Nazareth a Betlemme, si trattava di quattro giorni di cammino, per percorrere 130 chilometri, su una strada montuosa.

Un viaggio che Giuseppe fece a piedi con Maria, con l’aiuto di un asinello su cui erano caricati i loro bagagli. Maria era arrivata al nono mese della sua gravidanza e c’era il rischio di mettere a repentaglio la vita stessa del Figlio Divino. La ragione dell’audace decisione è l’abbandono alla Providenza che sembra caratterizzò la vita di Maria e di Giuseppe. I due sposi non potevano separarsi mentre stava per adempiersi il mistero della Natività.

Giuseppe obbedì alla legge dell’Impero e Maria non volle lasciare il padre putativo di Gesù in un momento in cui si avvicinava la nascita del Bambino. Si abbandonarono consapevolmente alla Divina Provvidenza, ma strumento inconsapevole della Divina Provvidenza fu l’Imperatore che fece muovere milioni di uomini, in tutto l’Impero, a servizio di Maria, di Giuseppe e di Gesù, che doveva nascere dove il profeta Michea aveva annunciato: nella città di Betlemme.

 

Quando Giuseppe e Maria giunsero nella cittadina cercarono di trovare un posto dove alloggiare, ma non lo trovarono, «poiché non v’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2, 7). Il piccolo villaggio era affollato come non mai, a cominciare dal caravanserraglio, un grande spazio a cielo aperto recinto da un muro e formato al suo interno da portici e da stanze che davano sul grande cortile. «Un ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa in cui si cantava, si dormiva, si mangiava» (Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Tipografia poliglotta Vaticana, Roma 1940, p. 274). E’ probabilmente questo il luogo che Luca chiama «l’albergo».

 

La Madonna e san Giuseppe chiesero probabilmente un luogo appartato, dove poter sostare senza mischiarsi alla confusione, contemplando le cose divine. San Luca dice che «per essi» non c’era posto. Furono forse giudicati fanatici o eccentrici per la loro purezza e il loro spirito di preghiera. Lo spirito del caravanserraglio era uno spirito di confusione e di compromesso. L’ospitalità poteva essere accordata ma solo a condizione di mescolarsi al mondo, al suo frastuono, al suo spirito.

Nel caravanserraglio si discuteva di politica, di affari, di pettegolezzi riguardanti Erode e la sua Corte, ma si era perso l’amore per la verità, per il bene, per la giustizia. Quante ricchezze spirituali avrebbe ottenuto colui che quella notte avesse dato ospitalità al Signore! Quanto sarebbe felice la nostra anima se non chiudesse così spesso la porta alla voce del Signore! Ma l’umanità oggi assomiglia al caravanserraglio, il grande e caotico albergo dove per tutti c’era posto, meno che per la Sacra Famiglia.

 

Lo sguardo di Giuseppe si posò allora su di una piccola grotta situata un po’ a oriente, sul pendio della collinetta in cima alla quale era costruita l’antica borgata. Serviva da stalla, come tante grotte di quel genere in Palestina e san Luca lo conferma quando parla di una mangiatoia. C’è un contrasto evidente tra la città illuminata, affollata di persone vocianti e il silenzio della grotta.

La grotta di Betlemme ricorda le grotte in cui si ritirarono i santi e gli anacoreti che nei secoli rifiutarono il mondo. Ma soprattutto è il simbolo della grotta dell’anima, dell’atteggiamento di raccoglimento interiore che ogni cristiano deve avere di fronte al frastuono del mondo. Fu in questa grotta che nacque il Salvatore e oggi la santa Grotta della Natività  è la gloria di Betlemme.

 

Nel caos del mondo odierno, chiediamo davanti al Presepio lo spirito della grotta di Betlemme. Lo spirito della grotta non è quello del caravanserraglio, dominato dal caos e indifferente alle cose divine. L’indifferenza talvolta è peggio del vizio: è  la chiusura dell’anima a tutto ciò che è puro, elevato, trascendente.

E’ l’ateismo pratico di chi è immerso nei piaceri della vita, nella ricerca del proprio benessere, nelle preoccupazioni del mondo. Gli abitanti di Betlemme non erano come quelli di Sodoma e Gomorra, ma chiusero le porte alla Sacra Famiglia, furono i primi a rigettare Gesù che bussava alle loro porte. Al loro spirito mondano si oppone lo spirito di Betlemme, che è lo spirito con cui Maria e Giuseppe riconobbero nel Bambino Gesù il Re dei Re, il Redentore dell’umanità, il Salvatore del mondo.

 

Lo spirito di Betlemme è lo spirito di purezza e di intransigenza, è lo spirito di chi è capace di elevarsi, di trascendere le cose del mondo per fondarsi sulla verità e contemplare i misteri divini.  Lo spirito di Betlemme è lo spirito degli Angeli, dei Re Magi e dei pastori. Gli Angeli scesero dal cielo per annunciare ai pastori la nascita del Salvatore (Lc 2, 8-14).

I pastori erano le creature più semplici. Essi vegliavano nella notte. Custodivano il gregge. Essi sono il simbolo di chi oggi veglia conservando e custodendo la parola di Dio. I Pastori di Betlemme adorarono il Pastore perfetto, l’archetipo di tutti i Pastori, Gesù Buon Pastore, che fin dalla nascita offrì l’olocausto della sua vita per il suo gregge.

 

Gesù Buon Pastore è il modello di tutti i Pastori della Chiesa che, nel corso dei secoli, vengono così chiamati a sua imitazione ed esempio. Ma quando i pastori abbandonano il gregge o si trasformano in lupi, il gregge dei fedeli deve chiedere lo spirito di semplicità e di fedeltà dei pastori di Betlemme, per non perdere la strada della Grotta, per ritrovare nella santa grotta Gesù bambino, ed adorarlo.

 

Oggi il mondo è immerso nelle tenebre, e quella che si chiama pastorale ha confuso le idee a molti Pastori della Chiesa. Per questo ci rivolgiamo ai santi pastori di Betlemme, che oggi esultano in Cielo con il Bambino Gesù e chiediamo loro di soccorrere sulla terra un gregge disorientato, di infondere lo spirito di Betlemme in tutti quei fedeli, dall’animo retto, che vogliono incoronare Gesù, Re del mondo, principe e fondatore della pace.

 

articolo pubblicato su Corrispondenza Romana