Molta curiosità sta suscitando, negli Stati Uniti, la pubblicazione di un libro: “Road to valor” dedicato a Gino Bartali, illustre campione del ciclismo. Fu vincitore di 3 Giri d’Italia e di 2 Tour de France negli anni ’30-’40 ma di lui si conosce anche l’impegno in favore degli ebrei che, durante la Seconda Guerra Mondiale, contribuì a salvare. Pedalando tra Toscana e Umbria, consegnava documenti falsi alle famiglie destinate alla deportazione: un compito che gli affidò il servo di Dio, cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze.
Lo Yad Vashem sta vagliando la possibilità di riconoscerlo come “Giusto tra le nazioni” e pertanto si stanno cercando nuove testimonianze. Benedetta Capelli ha intervistato Andrea Bartali, autore del libro “Gino Bartali, mio papà” che così descrive il campione.
R. – Un uomo pulito, per il quale il doping era la sua bistecca alla fiorentina! Un uomo di profonda fede cristiana, che non capiva perché si dovessero fare le guerre, perché si dovessero ammazzare delle persone; e che, non potendo fermare una guerra, cercava di portare aiuto – come meglio credeva – alle persone perseguitate sia da un punto di vista religioso, sia da un punto di vista anche personale.
D. – Ci sono degli aspetti della storia di Gino Bartali che sono meno conosciuti?
R. – Mio padre, la sua vita particolare, non l’ha mai raccontata. L’ho raccontata io nel libro “Gino Bartali, mio papà”, delle Edizioni Limina, perché si capisse veramente chi fosse quest’uomo: era un grande uomo, che non raccontava niente e che si teneva tutto dentro; lo raccontava a me. Tanto è vero che a un certo punto gli chiesi: “Papà, ma tu mi racconti tutte queste cose, poi mi dici di non dirle. Allora che me le racconti a fare?”. Mi disse una frase che mi è rimasta sempre un po’ impressa: “Te ne accorgerai da solo, quando verrà il momento di raccontarle”. A 12-13 anni dalla sua scomparsa è venuto il momento di raccontarle e quindi le ho raccontate.
D. – Come mai questa riservatezza?
R. – C’è un’altra storia da raccontare per capire un po’ la sua mentalità. Mio padre ha fatto più di un milione di chilometri in bicicletta e non sono pochi, non li fa nemmeno un camion… Ma a un certo momento, una sera, mi disse: “Fermiamoci a 700 mila chilometri, perché altrimenti la gente non ci crede!”. Forse sta lì il segreto di questa sua domanda. La sua riservatezza probabilmente parte anche da questo concetto qui: avendo avuto una vita molto intensa, nessuno avrebbe creduto a tutto quello che ha fatto…
D. – Un talento, quello di essere un campione in bici, messo a servizio della comunità: trasportava i documenti che consegnava alle famiglie ebree. Come era nata questa sua missione?
R. – E’ nata un po’ dalle circostanze di quel momento storico: durante la guerra noi eravamo alleati dei tedeschi e ci fu un ebreo polacco, un certo Alexander Ramadi, che fuggì, andò in India e si arruolò nell’esercito alleato e entrò ad Assisi, nel ’44, insieme alle truppe alleate. E lì cominciò a sentire la storia di chi si era salvato, di come si fosse salvato, di chi invece non si era riuscito a salvare e venne fuori anche il nome di Gino Bartali. Nome che fu ripreso poi dalla Rai, in una fiction – mi sembra – dell’82: il regista carinamente telefonò a mio padre e gli disse: “Gino, noi abbiamo saputo queste cose da questo Ramadi che ha scritto un libro – “Assisi underground”, “Assisi clandestina” – e noi stiamo realizzando un fiction e se tu vuoi aggiungere qualcosa a quello che ha già detto lui, ti prego incontriamoci…..”. Io mio padre l’ho visto arrabbiato, un po’ col mugugno – e questo faceva anche un po’ parte del suo carattere – ma non l’ho mai visto adirato come quella volta! E disse: “Queste sono cose che si fanno e non si dicono, perché il bene si fa, ma non si dice”. Approfittarsi delle disgrazie degli altri per farsi pubblicità non è bello, anzi – secondo lui – era una vigliaccheria.
D. – Quante persone – si può dire – furono salvate da suo padre?
R. – Nel 2005, ha ricevuto alla memoria una medaglia d’oro per merito civile. Nella menzione di questa medaglia d’oro c’è scritto: “Per aver contribuito a salvare più di 800 ebrei”.
D. – Avere un padre così importante – prima di tutto – come campione dello sport, ma poi scoprire anche come sia stato un campione nella vita, un uomo di grande valori è un peso per lei oppure una ricchezza?
R. – E’ un impegno! E’ un impegno portare avanti il suo nome come voleva lui: in modo pulito, in modo garbato, in modo semplice perché fondamentalmente mio padre era un uomo semplice. Quello che mi diceva sempre era: “Io sono un uomo libero”.
Fonte: Radio Vaticana 16 giugno 2012