Agli inizi del ventesimo secolo, mons. Oliviero Iozzi, vicario generale e studioso di archeologia cristiana, scrisse “Le insigni reliquie del Battista in Roma e in Viterbo”, pubblicato nel 1907. Attraverso questo lavoro, il Tozzi si prefissò l’obiettivo di sbrogliare una matassa che da secoli si intrecciava con la storia delle reliquie di San Giovanni Battista. Sebbene, infatti, secondo la tradizione della Chiesa cattolica, il capo del “più grande dei profeti” è conservato nella chiesa romana di San Silvestro in Capite, numerose sono le diocesi che sin dai primi anni successivi al martirio del Santo sciorinano di essere in possesso del suo cranio.
L’autore si impegnò a dimostrare l’autenticità scientifica di questa tradizione ufficiale, così come di quella che vuole la mandibola del cugino di Gesù – il “sacro mento” – conservata a Viterbo. Il suo lavoro, tuttavia, non è servito a sigillare con la parola fine la questione. La quale, anzi, a più di un secolo di distanza dalla pubblicazione di questo libro, si è arricchita di nuovi spunti che alimentano il dibattito.
La storia del martirio di San Giovanni Battista è nota ai più. Inviso ai farisei, dei quali denunciava l’ipocrisia, e amato dal popolo, al cui cuore sapeva penetrare mediante una predicazione condita di passione e di parole semplici, riprovò pubblicamente la peccaminosa condotta di Erode Antipa, re di Giudea, e della cognata Erodiana.
La coraggiosa denuncia del Battista intaccò la suscettibilità dei due artefici della sua riprovazione, i quali lo costrinsero alla prigionia a Macheronte, località sulla sponda orientale del Mar Morto.
Erode Antipa, preoccupato da una sollevazione popolare causata da una simile notizia, si dimostrò per lungo tempo riluttante all’ipotesi di uccidere il suo celebre prigioniero. Allora Erodiade, insensibile alle questioni amministrative che angustiavano il re, ideò un espediente per convincerlo a comminare la pena estrema.
Ricorse a Salomè, frutto del suo primo matrimonio, e dunque anche nipote di Erode Antipa. In occasione di un festivo, la fece ballare dinnanzi agli occhi del re di Giudea, il quale rimase entusiasta della sua abilità, a tal punto da prometterle di esaudirle qualunque desiderio.
A quel punto Salomè, consigliata dalla madre, chiese la testa di San Giovanni Battista. Passarono poche ore e la testa del prigioniero le fu presentata su un vassoio. Fu così messa a tacere la voce che annunciava l’imminente messaggio evangelico.
Successivamente, il resto del corpo del Battista venne fatto bruciare, ma la comunità cristiana riuscì a recuperare la testa (probabilmente un 29 agosto, giorno in cui si celebra il suo martirio).
È facile supporre che si pensò a un luogo sicuro e segreto in cui conservarla, d’altronde erano quelli gli anni in cui la Chiesa era costretta alla clandestinità. L’alone di mistero che aleggia intorno a quel periodo storico nutrì il diffondersi di leggende e racconti non verificati, i quali confluirono e si confusero con testimonianze più attendibili.
Ben presto si sparse la voce secondo cui la testa di San Giovanni Battista, con l’andar del tempo, aveva il potere di moltiplicarsi. Convinzione che – si può presumere – ha favorito la propagazione di chiese e monasteri, sparsi per il mondo, che assicurano di essere in possesso del capo del Battista o della sua mandibola.
Una delle più antiche testimonianze in questo senso ha luogo a Damasco, in Siria. Qui, presso la moschea degli Omayyadi – che un tempo era una chiesa – ci sarebbero le ossa e il cranio di San Giovanni Battista, gelosamente custodite e venerate (almeno sino all’inizio dell’attuale conflitto siriano). Soltanto in Francia, poi, tre chiese si contendono la proprietà del cranio di San Giovanni.
Nella cattedrale di Amiens, la cui costruzione venne iniziata nel 1206, allorquando alcuni crociati, reduci dal Sacco di Costantinopoli, portarono in salvo un frammento del cranio del Battista. Un altro frammento sarebbe incluso tra le reliquie donate alla Sainte Chappelle di Parigi dal Re santo Luigi IX. Infine, anche a Saint-Jean d’Angély, nella regione ovest di Charente-Maritime, si sostiene la presenza di una parte del cranio del Santo.
Damasco, Roma e tre località francesi. Eppure, come se non bastasse il quadro appena descritto, a complicare il lavoro dei ricercatori ci si è messo nel 2012 un docente di Oxford, il professor Thomas Higham.
L’esperto archeologo si è offerto di sottoporre alla prova del “carbonio 14” delle ossa provenienti da una piccola isola bulgara sul Mar Nero chiamata Sveti Ivan (che in bulgaro significa San Giovanni). Si tratta di un dente, una costola, parte di un avambraccio, parte anteriore di un cranio e falange di una mano. Le ossa sono state ritrovate custodite all’interno di un sarcofago proveniente dalla Cappadocia, dove fino all’anno Mille era attestata la presenza di reliquie del Battista.
Ebbene, il responso di Higham ha dato il seguente esito: le ossa risalgono al I secolo e sono appartenute tutte allo stesso uomo. Ma non solo, esse contengono elementi chimici che dimostrano la loro provenienza dal Medio Oriente, dalla regione in cui scorre il Giordano. Se tre indizi fanno una prova, la loro autenticità appare non certa ma almeno probabile.
E allora, la tradizione ufficiale che fa risalire il cranio del Battista a quello esposto in una cappella laterale di San Silvestro in Capite sarebbe priva di fondamento? No, in quanto è possibile dedurre la complementarietà delle varie tradizioni esistenti.
Del resto, la reliquia presente a Roma non è che una parte del cranio, precisamente la calotta. Sparsi per il mondo, dunque, ci sarebbero una serie di frammenti cranici che, se messi insieme, formerebbero il teschio intero del “più grande dei profeti”.
Si hanno perciò elementi validi per continuare a venerare la reliquia che giunse a Roma durante il pontificato di Innocenzo II (1130-1143), senza temere in tal modo di eclissare altre tradizioni radicate altrove.
Federico Cenci
Fonte: Zenit