Come sappiamo, la dottrina della reincarnazione è antichissima: compare in India col nome di samshara molti secoli prima di Cristo e la si ritrova più tardi in Grecia con Pitagora nel sec.VI a.C, probabilmente proveniente dall’India, giacchè in Occidente non ha mai attecchito. E’ giusto oggi, in un tempo di forti trasmigrazioni culturali, che questa dottrina si è diffusa anche tra noi. Sappiamo grosso modo di cosa si tratta: della convinzione che noi nasciamo con un’anima che in una vita precedente si è unita ad un altro corpo e la nostra anima alla morte è destinata ad assumere un altro corpo.
Nel brahmanesimo tale teoria è associata all’idea del karman, che è una specie di legge di “giustizia”, per la quale nasciamo col corpo che ci siamo meritati nella vita precedente e nella vita futura avremo quel corpo che ci siamo meritati in questa vita. Chi in questa vita si comporta bene avrà dopo un corpo migliore; chi si comporta male, avrà un corpo peggiore. Chi nasce con un bel fisico si è comportato bene nella vita precedente, se si nasce brutti o deformi, è segno che ci si è comportati male nella vita precedente.
Lo scopo finale della vita secondo la reincarnazione è quello di arrivare ad un punto, attraverso successive vite future nelle quali il corpo diventa sempre migliore, nel quale l’anima si libera definitivamente da ogni corporeità, per cui essa puro spirito, s’immerge totalmente nel mare infinito di Brahman per scomparire in lui per sempre in un’eterna beatitudine.
La dottrina della reincarnazione nella letteratura indiana suppone esplicitamente una concezione dell’anima come immortale. Il che è senza dubbio vero, dato che anche per noi credenti esiste un dogma che insegna questa verità nel Concilio Lateranense V del 1513.
Senonchè però secondo la reincarnazione l’anima esiste da sempre e quindi è in certo senso divina, e ciò è indubbiamente falso, dato che l’anima è forma sostanziale del corpo, come insegna il Concilio di Viennes del 1312 e viene creata immediatamente da Dio, come la Chiesa insegna da sempre e Pio XII ha ribadito nell’enciclica Humani Generis del 1950.
Inoltre, secondo la concezione indiana, il corpo umano non è una materia (prakrti) informata dall’anima (atmàn, purùsha) per costituire un’unica essenza completa, l’essenza dell’individuo umano (jivan) o un’unica persona dotata di un unico essere, ma è una specie di “vestito” (testuale espressione), che viene indossato e lasciato senza che l’anima acquisti o perda alcunchè della sua naturale perfezione, per la quale essa di per sé potrebbe vivere benissimo anche senza il corpo, anzi essa aspira a liberarsi dal corpo, che non è affatto una parte essenziale dell’individuo o della persona, ma è un’ “aggiunta” (upadhi) accidentale, sgradevole e schiavizzante, per cui, prima ci si libera da questo “carcere” o da questa “tomba”, per usare le parole di Platone, che forse risente della filosofia indiana, meglio è, così da raggiungere per sempre la libertà (moksa).
Occorre però dire che la dottrina della reincarnazione è falsa perché suppone una concezione falsa dell’anima e del corpo e quindi una concezione falsa del rapporto tra i due.
Innanzitutto anima e corpo non sono due tutti, due sostanze, due enti, ma due parti della medesima sostanza individuale, che è la persona. Infatti la persona si compone di una parte materiale (il corpo) e di una parte spirituale (l’anima), per cui corpo e anima non sono due sostanze o due tutti completi, come la res cogitans e la res extensa di Cartesio, accostate o giustapposte l’una all’altra, come appunto un vestito riveste un corpo. Il corpo si può dire un tutto non da solo in quanto materia, ma in quanto materia informata dall’anima. E l’anima, dal canto, ha un essenziale bisogno del corpo, affinchè la natura umana sia completa.
Certamente il corpo si genera e si corrompe, mentre l’anima è immortale e incorruttibile, perché semplice e spirituale. E questa è la parte di verità della reincarnazione. Per questo, mentre il corpo muore, l’anima continua a sussistere e a vivere. Eppure io, corpo umano vivo sono in fondo la una stessa persona singola, in quanto corpo vivente di anima spirituale; il corpo senz’anima non è più un vero corpo umano, ma è un cadavere.
E’ vero tuttavia che io ho un corpo così come ho un’anima. Il mio io è un tutto: la mia persona, composta di anima e corpo. Io quindi non sono due: un’anima che sussiste per conto suo e un corpo che sussiste per conto suo. Io sono un unico soggetto, un unico individuo, un’unica sostanza, un’unica persona, con un unico essere umano.
Posso dire che sono un corpo animato, e in tal senso sono un tutto, ma non che sono un’anima, perché la mia anima non è il tutto di me stesso, ma solo la sua parte formale, la forma sostanziale, anche se l’anima è capace di sussistere senza il corpo. Se la mia anima dovesse starsene per conto proprio senza il corpo, vorrebbe dire che sono morto ed abbiamo allora l’anima separata, come quella dei defunti.
Il mio io non ha origine dal fatto che un corpo che non fa parte della mia essenza, si aggiunge accidentalmente alla mia anima preesistente, che sarebbe il mio io, no: io vengo ad esistere in quanto il mio corpo generato dai miei genitori, al momento del concepimento, viene ad essere animato dalla mia anima creata immediatamente da Dio dal nulla. Dunque nessuna anima preesistente al mio concepimento, ma un’anima che inizia ad esistere al momento del mio concepimento.
In secondo luogo, in base a quanto detto, dovrebbe risultare evidente che ogni anima è fatta per quel dato corpo e non per altri, ed ogni corpo è fatto per quella data anima e non per altre, così come ad ogni serratura corrisponde una data chiave e viceversa. E’ dunque impossibile che un’anima assuma un corpo che non è il suo e un corpo sia abitato da un’anima che non è la sua, il che è precisamente la pretesa della reincarnazione.
Quello che può accadere, e qui abbiamo il dogma della risurrezione, è solo che quel dato cadavere riassuma la propria anima, così come che quella data anima alla fine dei tempi formi per sé il corpo che le è adatto, ossia quel corpo che su questa terra era il suo corpo.
Mentre la dottrina della reincarnazione, in base a quanto detto, è una dottrina assurda, quella della risurrezione è quanto meno possibile, anche se, trattandosi di un mistero di fede, la nostra ragione non riesce a comprendere con precisione come andranno le cose e si affida all’onnipotenza divina creatrice dell’uomo.
Stando così le cose, le cosiddette “prove” della reincarnazione sono prove fasulle, anche se colpiscono la fantasia, come per esempio i racconti di coloro i quali, senza esser mai stati in precedenza in un dato posto, hanno la netta impressione di riconoscerlo, per cui sanno in anticipo i particolari di quel posto. La cosa si può spiegare, ammesso che non si tratti di frode, con la suggestione proveniente da qualche entità spirituale separata.
Anche il caso dei fanciulli superdotati, i cosiddetti “bambini prodigio”, si può spiegare col fatto di eccezionali dotazioni neurocerebrali innate, senza bisogno di ricorrere a impossibili vite precedenti. Da piccolo io ebbi una speciale dote per il disegno, per spiegare la quale un tale disse che io ero la reincarnazione di un principe indiano. In ogni caso io non me ricordavo per nulla.
Quanto alle disparità esistenti in forma innata, esse si possono e si debbono spiegare non col karman, ma come conseguenze del peccato originale. Certo, tali disparità, se vogliamo, sono effetto di una “giustizia”, ma non nel senso che si riferiscano a una vita precedente, bensì invece, come è insegnato dalla fede, come conseguenze del peccato originale.
Inoltre, il fine ultimo dell’uomo, secondo la fede cristiana, non è affatto la liberazione dell’anima dal corpo, ma è l’integrità della persona e della natura umana, che comporta la liberazione dal peccato e dalla morte ed essenzialmente l’unione sostanziale dell’anima col suo corpo. Certamente l’anima separata dopo la morte, se è in paradiso, è beata, ma si trova in uno stato innaturale ed attende di riavere il suo corpo alla fine del mondo. Solo allora la sua felicità sarà perfetta.
La dottrina della reincarnazione infiacchisce l’energia morale ed ottunde il senso della responsabilità con la prospettiva di una vita futura nella quale si hanno ancora delle chances di correggersi e cercare seriamente Dio. Il sapere invece che il nostro destino eterno si gioca solo nella vita presente, stimola l’iniziativa e l’impegno morale, dà la gioia della speranza di non dover vivere altre vite ma di andare subito in paradiso, crea sin da quaggiù, seppure allo stato iniziale, quelle condizioni di vita che subito dopo la morte – tale è la speranza cristiana – costituiranno la pienezza finale di quella perfezione che inizia quaggiù.
articolo pubblicato su Libertà e Persona