Lo Stato italiano spende in un anno 200 milioni di Euro per l’aborto. E altre centinaia di migliaia di euro per la fecondazione artificiale omologa. Non si potrebbe cominciare a risparmiare da qui, facendo pagare ai singoli cittadini questi delitti? Il silenzio del mondo cattolico impone una riscossa che parta dai singoli cristiani. E’ diventato il ritornello di questi ultimi mesi, in Italia e non solo: bisogna risparmiare.
La parola d’ordine è ridurre i costi, tagliare la spesa, diminuire gli sprechi del sistema pubblico. Il fatto singolare, però, è che praticamente a nessuno sia venuto in mente di sforbiciare le uscite che lo Stato affronta ogni giorno per compiere azioni malvagie legalizzate. Pensate, ad esempio, all’aborto e alla fecondazione artificiale.
In Italia non soltanto queste azioni sono lecite, cioè si possono compiere impunemente; ma come se non bastasse, queste condotte sono pagate dal Servizio Sanitario Nazionale, cioè dallo Stato, ovverosia da ciascuno di noi. Con l’approvazione dell’aborto legale, avvenuto nel 1978 con la legge 194, l’aborto è diventato anche completamente gratuito. Cosa che non accade, ad esempio, negli Stati Uniti, dove l’aborto è libero ma chi vuole praticarlo se lo deve pagare. Sempre che Obama non riesca a farlo rientrare nei servizi garantiti dallo Stato. In Italia, dicevamo, ogni aborto è un costo per la collettività.
Il costo dell’aborto: 170 milioni di euro all’anno
Quanto ci costa uccidere i nostri figli? Prendiamo ad esempio le tariffe in vigore dal primo di gennaio 2012 a Udine, in Friuli. I costi sono definiti dai DRG, cioè dal Diagnosis-relater group, un sistema adottato da ogni regione italiana, che fissa un cifra in relazione alle singole tipologie di prestazione. Ogni singolo aborto volontario ha un DRG che varia da 1479 Euro a 1814 Euro. Proviamo a prendere per buone queste cifre di costo per lo Stato (e per le Regioni, competenti nella gestione dei servizi sanitari) e proviamo a moltiplicarle per il numero di aborti praticati in un anno in Italia.
Il Ministro della Salute ha reso noto che nel 2010 in Italia ci sono stati 115.372 aborti volontari praticati negli ospedali pubblici, con un rapporto di abortività – cioè il numero di aborti per ogni 1000 nati – pari a 207. Vuol dire che ogni 5 bambini nati 1 viene abortito. Se moltiplichiamo 1479 Euro (il DRG per aborto senza raschiamento e aspirazione) per 115.372 si ricava che in un anno per uccidere i bambini non nati l’Italia spende più di 170 milioni di Euro. Se poi proviamo a considerare il DRG da 1814 Euro (per aborto con raschiamento e aspirazione) allora la spesa annua per aborti del nostro Stato ammonta a più di 209 milioni di Euro. Quanto bene si potrebbe fare.
In entrambe i casi, si tratta di un sacco di soldi, con cui si potrebbe fare del bene: ad esempio, aiutare qualche donna che vuole abortire per motivi economici a tenersi il figlio, ricordando per altro che quella economica non è affatto una motivazione decisiva, e che le vere ragioni e motivazioni dell’aborto sono spesso altrove.
Lo dimostra il tasso di abortività, che è più alto in regioni con condizioni economiche generali buone: in Liguria ci sono 294 aborti ogni 1000 nati (1 su 3 nati), in Emilia Romagna 258 ogni 1000 (1 su 4 nati), in Piemonte 256 su 1000 (anche qui 1 su 4); mentre in Basilicata “solo” 140 su 1000. In ogni caso, qui il punto non è nemmeno quello di vietare e punire l’aborto volontario – come sarebbe necessario e doveroso da parte dello Stato – ma in via minimale almeno tagliare il finanziamento all’aborto.
Risparmiare laddove i soldi servono a uccidere e a facilitare l’uccisione del nascituro: non è infatti improbabile che una donna sarebbe in parte dissuasa dalla presentazione di una fattura di 1400 o 1800 euro per abortire. Le costerebbe meno comprare un passeggino, un seggiolone e parecchio latte in polvere.
E il sistema sanitario risparmierebbe un po’ di danaro. E qualche bambino si salverebbe dalla morte violenta prevista dalla legge 194. Si tenga conto anche di questa situazione paradossale collegata all’aborto e alle sue spese: se una donna dichiara di voler abortire, i suoi esami sono gratuiti; ma se poi ci ripensa, e si tiene il bambino, è chiamata a pagarli. Uno strano silenzio.
Sorprende che fra tutte le forze politiche, gli intellettuali, i giornalisti che si dichiarano di orientamento cattolico, nessuno abbia sentito il bisogno di lanciare, anche a scopo provocatorio, questa proposta di spending review etica: magari lo si è sentito fare per le spese in armamenti, ma silenzio totale sul fronte della guerra che lo Stato italiano ha ingaggiato da oltre trent’anni con i nascituri di uomo.
Questo silenzio ha delle ragioni. La prima: l’accettazione diffusa – anche in non pochi ambienti cattolici – della “socializzazione dell’aborto”, cioè della legalizzazione collegata all’assunzione di spesa da parte dello Stato.
Si tratta di quel fenomeno che Luigi Lombardi Vallauri definì abortismo umanitario: piuttosto che spingere i “poveri” all’aborto clandestino o all’impossibilità di abortire, meglio che lo Stato provveda pagando il conto. Difficile trovare oggi persone che non ragionino in questo modo. La seconda ragione: proporre di “tagliare” i costi dell’aborto avrebbe esposto il malcapitato proponente ad attacchi virulenti provenienti dal mondo abortista; e al silenzio imbarazzato di ambienti “amici”.
I figli in provetta pagati dai contribuenti
Un altro settore in cui lo Stato finanzia il male è quello della fecondazione artificiale in vitro omologa. Dopo l’approvazione della legge 40 del 2004, la Fivet (acronimo di Fecondazione In Vitro ed Embryo Transfer, ndr) è diventata un’opportunità che può essere anche pagata dal Servizio Sanitario. In questo caso ci risulta più difficile ricostruire il costo di ogni singolo intervento, anche perchè esistono notevoli differenze tra le diverse strutture che effettuano la Fivet.
Alcune Regioni hanno inserito la Fivet nei DRG (in particolare il DRG 359 per il prelievo di ovociti e il DRG 365 per il trasferimento di embrioni in utero). Ciò comporta che, ed esempio in Toscana, una Fivet Icsi viene finanziata dal sistema sanitario per 1825 Euro, se la donna no ha più di 41 anni e per 3 cicli.
In Lombardia, il costo è circa il doppio, non vi sono limiti di età e i cicli “finanziati” sono 6. Le donne possono recarsi dalla loro regione, in cui la Fivet si paga, in queste regioni che prevedono il servizio pagato dalla collettività.
Nel 2010 sono state assistite in Italia circa 70.000 coppie. Una parte di loro è andata nelle cliniche private, dove si spende dai 3 agli 11.000 euro per ciclo. E’ evidente che una parte di questi 70.000 sono andati negli ospedali pubblici lombardi o toscani, dove ha pagato Pantalone, cioè noi. Anche qui ci vorrebbe un po’ di spending review, a patto che qualcuno la chieda, invece di preoccuparsi di “garantire il servizio”.
E’ utile ricordare che per quelle 70.000 coppie nel 2010 sono stati prodotti 113.019 embrioni, e che i bambini nati in quell’anno sono stati 12.506: vuol dire che 9 embrioni su 10 sono morti.
Che cosa possiamo fare?
La prima cosa da fare è prendere atto di questa situazione, e rendersi conto che le nostre tasse servono a uccidere esseri umani innocenti. La seconda cosa è dirci queste cose e dirle se necessario dai tetti. La terza cosa è scrivere alla stampa cattolica, per svegliarla dal torpore che la avvolge su questo tema. La quarta è ultima azione è aiutare i nostri pastori a essere coraggiosi su queste frontiere: negli States Obama si trova davanti vescovi schietti e combattivi. Chiediamoci che cosa facciamo qui in Italia di fronte ai temi non negoziabili.
Mario Palmaro
Fonte: Il Quintuplo