Appena sveglia una dei miei quattro figli, Livia, che ha 5 anni e comincia a cercare di capire qualcosa del calendario, mi ha chiesto che giorno fosse. Con uno sforzo titanico, raccogliendo le forze, ho recuperato alcune coordinate (chi sono, perché vivo, che mese è): “E’ l’8, è la festa della donna”. “Bene, che regalo facciamo al babbo e ai fratelli?” – ha chiesto la saggia ragazza, avviandosi all’asilo.
Effettivamente, se la logica non la inganna, come succede a Natale, che è la festa di Gesù, è il festeggiato a dare qualcosa agli altri. “Regaleremo noi stesse” – ho risposto, più che altro un po’ terrorizzata all’idea di passare un pomeriggio a cercare qualcosa per mio marito, soggetto difficilissimo e amante della tecnologia, materia a me ostile (se entro in una stanza i computer smettono di funzionare e ho anche l’impressione che ridano di me).
Bene, se alla mia bambina avessi insegnato solo questo in cinque anni mi riterrei soddisfatta. Spero che lei e la sua sorellina appartengano finalmente alla generazione di donne pacificata con gli uomini, desiderose di onorarli, piene di stima e rispetto nei loro confronti, consapevoli di avere bisogno di loro, del loro sguardo sul mondo, della loro virilità, che è essenzialmente capacità di dare la vita per la sposa, i figli, e quelli di cui si fanno carico.
Sarà che hanno un padre di poche parole ma di molta sostanza, generoso e presente ma autorevole e anche autoritario all’occorrenza. Sarà che non leggono giornali né guardano televisione, e quindi non vedono nessuna discriminazione in casa o fuori. Sarà che sanno che maschi e femmine sono diversi, e questa cosa a noi tre donne di famiglia piace moltissimo.
E non si dica che è così perché il nostro è un uomo eccezionale: è meraviglioso, è vero, ma per il resto è un perfetto esemplare del modello base dell’essere umano. Anche lui chiede come stai e poi esce dalla stanza nel momento in cui comincio a rispondere, anche io, se lui mi guarda ammirato, mi giro a controllare se per caso c’è uno schermo che trasmette un dribbling di Totti o un piano sequenza di Scorsese (di solito sì, c’è), anche lui perde liste della spesa, chiavi e ricevute, anche lui trova difficoltà a fare due cose insieme.
Parlare male dei maschi è il nuovo nero, va bene su tutto, ma forse è ora di smettere: altro che 8 marzo e quote rosa, quella che sta vivendo la virilità ai nostri giorni è una crisi inedita nella storia dell’umanità. Se c’è qualcuno a essere sotto scacco sono gli uomini, indotti dalla pressione sociale e dalla ideologia unica e monocorde, quella del gender, a diventare più femminili, sentimentali, a indossare gli abiti del servizio e a deporre quelli dell’autorevolezza, ormai quasi sinonimo di barbarie. Sarà che autorevole viene da augeo, accresco, porto verso l’alto, e dell’Alto, invece, si è persa memoria, senso, direzione.
Si parla così male dei maschi perché si dimentica che Dio ha creato l’uomo, enigma teologico per eccellenza, maschio e femmina. A sua immagine e somiglianza, maschio e femmina. La tensione tra maschile e femminile deve essere una dinamica di accrescimento reciproco, che rievoca quella di Dio, di cui è immagine. Dio Trinità: tre persone diverse e unite.
Siamo diversi, e per questo non occupiamo gli stessi posti nella società, non per una congiura dei maschi. E’ perché diverse sono le cose che davvero ci realizzano nel profondo.
Che regalo fare, dunque, ai maschi, per cogliere il suggerimento di mia figlia Livia anche dopo l’8 marzo? Uno sguardo accogliente, leale, pieno di sincera approvazione. Propongo a tutte le donne di schiacciare la propria lingua, di solito sempre pronta a brontolare, fare battutine, sottolineare il male.
Propongo che da oggi, dunque, ogni donna, rasserenata e pacificata, rimandi al suo uomo un’immagine di sé profondamente bella. L’uomo non è sensibile alle manifestazioni di piazza, mentre non resiste a una donna leale, che abbia uno sguardo pronto a vedere in lui la parte migliore.
articolo pubblicato sul blog di Costanza Miriano