ROMA, 7 marzo 2013 – La scommessa più facile è che il prossimo papa non sarà italiano. Ma nemmeno europeo, africano, asiatico. Per la prima volta nella bimillenaria storia della Chiesa il successore di Pietro potrebbe venire dalle Americhe. O a voler azzardare una previsione più mirata: dalla Grande Mela. Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, 63 anni, è un omone del Midwest dal sorriso radioso e dal vigore straripante, proprio quel “vigore sia del corpo che dell’animo” che Joseph Ratzinger ha riconosciuto di aver perduto e ha definito necessario per il suo successore, al fine di bene “governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo”.
Nell’atto di rinuncia di Benedetto XVI c’era già il titolo del programma del futuro papa. E a molti cardinali tornò presto in mente la vivacità visionaria con cui Dolan sviluppò proprio questo tema, col suo italiano “primordiale”, parola sua, ma spumeggiante, nel concistoro di un anno fa, quando egli stesso, l’arcivescovo di New York, si apprestava a ricevere la porpora:
> L’annuncio del Vangelo oggi
Fu un concistoro molto criticato, quello del febbraio 2012. Da settimane, documenti scottanti prendevano il volo dalle stanze vaticane e persino dalla riservatissima scrivania del papa per rovesciare in pubblico avidità, contrasti, malefatte di una curia alla deriva.
Eppure, tra i nuovi cardinali creati da Benedetto XVI, un buon numero erano italiani, erano di curia e, peggio, erano legati a filo doppio al segretario di Stato, Tarcisio Bertone, universalmente ritenuto il principale colpevole del malgoverno.
Papa Joseph Ratzinger aggiustò il tiro qualche tempo dopo, in novembre, con altre sei nomine cardinalizie tutte extraeuropee, compresa quella dell’astro nascente della Chiesa d’Asia, il filippino con madre cinese Luis Antonio Gokim Tagle.
Ma la frattura rimaneva intatta. Da una parte i feudatari di curia, in strenua difesa dei rispettivi centri di potere. Dall’altra l’ecumene di una Chiesa che non tollera più che l’annuncio del Vangelo nel mondo e il luminoso magistero di papa Benedetto siano oscurati dalle tristi narrazioni della Babilonia romana.
È la stessa frattura che caratterizza l’imminente conclave. Dolan è il candidato tipo che rappresenta la svolta purificatrice. Non l’unico ma certamente il più rappresentativo e audace.
Sul fronte avverso, però, i magnati di curia fanno muro e contrattaccano. Non spingono avanti qualcuno di loro, sanno che così la partita sarebbe persa in partenza. Fiutano l’aria che tira nel collegio cardinalizio e puntano anch’essi lontano da Roma, al di là dell’Atlantico, non al nord ma al sud dell’America.
Guardano a San Paolo del Brasile, dove c’è un cardinale nato da emigrati tedeschi, Odilo Pedro Scherer, 64 anni, che in curia conoscono bene, che è stato per anni a Roma a servizio del cardinale Giovanni Battista Re, quando questi era prefetto della congregazione per i vescovi, e che oggi fa parte del consiglio cardinalizio di vigilanza sullo IOR, la “banca” vaticana, riconfermato pochi giorni fa, con Bertone suo presidente.
Scherer è il candidato perfetto di questa manovra tutta romana e curiale. Non importa che in Brasile non sia popolare, nemmeno tra i vescovi, che chiamati ad eleggere il presidente della loro conferenza, due anni fa, lo bocciarono senza appello. Né che non brilli come arcivescovo della grande San Paolo, capitale economica del paese.
L’importante, per i magnati curiali, è che sia docile e grigio. L’aureola progressista che ammanta la sua candidatura è di derivazione puramente geografica, ma giova anch’essa per accendere in qualche ingenuo porporato il vanto di eleggere il “primo papa latinoamericano”.
Come nel conclave del 2005 i voti dei curiali e dei sostenitori del cardinale Carlo Maria Martini si riversarono assieme sull’argentino Jorge Bergoglio, nel tentativo fallito di bloccare l’elezione di Ratzinger, anche questa volta potrebbe avvenire un analogo connubio. Curiali e progressisti uniti sul nome di Scherer, con quel pochissimo che resta degli ex martiniani, da Roger Mahony a Godfried Danneels, entrambi oggi sotto tiro per la cedevole loro condotta nello scandalo dei preti pedofili.
Il papa che piace ai curiali e ai progressisti è per definizione debole. Piace ai primi perché li lascia fare. E ai secondi perché dà spazio al loro sogno di una Chiesa “democratica”, governata “dal basso”.
Non deve stupire che un esponente di grido del cattolicesimo progressista mondiale, lo storico Alberto Melloni, abbia auspicato sul “Corriere della Sera” del 25 febbraio che dal prossimo conclave esca non un “papa sceriffo” ma “un papa pastore”, abbia deriso il cardinale Dolan e abbia indicato proprio in quattro magnati di curia i cardinali a suo giudizio più “capaci di comprendere la realtà” e di determinare “l’esito effettivo del conclave”: gli italiani Giovanni Battista Re, Giuseppe Bertello, Ferdinando Filoni “e ovviamente Tarcisio Bertone”.
Cioè esattamente quelli che stanno orchestrando l’operazione Scherer. Ai quattro andrebbe aggiunto l’argentino di curia Leonardo Sandri, del quale si fa correre voce che sarà il futuro segretario di Stato.
Per una curia siffatta, la sola ipotesi dell’elezione di Dolan è foriera di terrore. Ma Dolan papa imprimerebbe una scossa anche a quella Chiesa fatta di vescovi, di preti, di fedeli che non hanno mai accettato il magistero di Benedetto XVI, il suo ritorno energico agli articoli del “Credo”, ai fondamentali della fede cristiana, al senso del mistero nella liturgia.
Dolan è, nella dottrina, un ratzingeriano a tutto tondo, con in più la dote del grande comunicatore. Ma lo è anche nella visione dell’uomo e del mondo. E nel ruolo pubblico che la Chiesa è chiamata a svolgere nella società.
Negli Stati Uniti è alla testa di quella squadra di vescovi “affermativi” che hanno segnato la rinascita della Chiesa cattolica dopo decenni di soggezione alle culture dominanti e di cedimenti al dilagare degli scandali.
In Europa e nel Nordamerica, cioè nelle regioni di più antica ma declinante cristianità, non esiste oggi una Chiesa più vitale e in ripresa di quella degli Stati Uniti. E anche più libera e critica rispetto ai poteri mondani. È svanito il tabù di una Chiesa cattolica americana che si identifica con la prima superpotenza mondiale, e quindi non potrà mai esprimere un papa.
Anzi, ciò che stupisce di questo conclave è che gli Stati Uniti offrono non uno, ma addirittura due “papabili” veri. Perché oltre a Dolan c’è l’arcivescovo di Boston, Sean Patrick O’Malley, 69 anni, con barba e saio da bravo frate cappuccino.
Il suo appartenere all’umile ordine di san Francesco non è d’ostacolo al papato né è senza precedenti illustri, perché anche il grande Giulio II, il papa di Michelangelo e di Raffaello, era francescano.
Ma ciò che più conta è che Dolan e O’Malley non sono due candidati tra loro contrapposti. I voti dell’uno possono convergere sull’altro, se necessario, perché sono entrambi portatori di un unico disegno.
Rispetto a Dolan, O’Malley ha un profilo meno risoluto per quanto riguarda le capacità di governo. E ciò potrebbe renderlo più accettabile ad alcuni cardinali, consentendo a lui di varcare quella soglia decisiva dei due terzi dei voti, 77 su 115, che potrebbe essere invece preclusa al più energico, e quindi molto più temuto, arcivescovo di New York.
Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare a un terzo candidato, il cardinale canadese Marc Ouellet, anche lui di salda matrice ratzingeriana e ricco di talenti simili a quelli di Dolan e O’Malley, ma ancor più incerto e timido di quest’ultimo nelle decisioni operative. In un conclave che sul riordino del governo della Chiesa punta molte sue aspettative, la candidatura di Ouellet, pur presa in considerazione dai cardinali elettori, appare la più debole fra le tre nordamericane.
Col suo guardare da Roma al di là dell’Atlantico, l’imminente conclave prende atto della nuova geografia della Chiesa.
Il cardinale Ouellet è stato da giovane missionario in Colombia. Il cardinale O’Malley parla alla perfezione spagnolo e portoghese e ha sempre avuto come sua attività preminente la cura pastorale degli immigrati ispanici. Il cardinale Dolan è il capo dei vescovi di un paese che ha raggiunto le Filippine al terzo posto nel mondo per numero di cattolici, dopo Brasile e Messico. E sono “latinos” un terzo dei fedeli degli Stati Uniti, anzi, già la metà tra quelli sotto i 40 anni.
Non sorprende che i cardinali dell’America latina siano pronti a votare questi loro confratelli del nord. E con loro altri porporati di peso come l’italiano Angelo Scola, l’arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois, l’australiano George Pell.
Chiuse le porte del conclave, nel primo scrutinio potrebbero cadere su Dolan già molti voti, forse non i 47 di Ratzinger nella prima votazione del 2005, ma pur sempre parecchi.
Il seguito è ignoto.
articolo tratto da http://chiesa.espresso.repubblica.it/