È martedì e sono nella stanza dei colloqui al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli. Da poco ho finito l’incontro settimanale di équipe e sto facendo il punto delle situazioni presentate dagli operatori. Bussano alla porta: “Avanti!” Entra una giovane donna, saprò dopo che si chiama Silvia, che mi dice:
“Sono appena stata a prenotarmi per un’interruzione di gravidanza, ma sapendo che la legge 194 prevede una riflessione, ho chiesto con chi avrei potuto confrontarmi, e mi hanno indicato questo posto. E’ quello giusto?”
Rimango un po’ stupita, ma immediatamente faccio mente locale e rispondo:
“Benvenuta! Certo che è arrivata nel posto giusto; siamo qui proprio per ascoltare le persone che ne sentano il bisogno. Si accomodi.” Si guarda un po’ in giro:
“Che bella questa stanza, non sembra di essere all’interno di un ospedale.”
In effetti la nostra stanza dei colloqui non vuole essere un posto anonimo; è arredata come il salotto di casa con un divano, una poltrona, una chaise longue, un tavolino con qualche oggetto, una libreria vecchiotta che ha un certo sapore di vissuto e una bella pianta verde.
Vorremmo, infatti, che le persone si sentissero a proprio agio nel confidare a una perfetta sconosciuta le loro cose più intime e, così, ci facciamo aiutare da un “setting” confortevole e profumato, con un sottofondo musicale rilassante.
“Io mi chiamo Paola e questo è il Centro di Aiuto alla Vita; ha voglia di raccontarsi?” “Centro di Aiuto alla Vita? Ma io sono prenotata per interrompere la gravidanza e voi …”
Interrompere la gravidanza; questa è la situazione che ci ha sempre interpellato e che ci ha spinto ad essere presenti all’interno dell’ospedale.
La legge 194 del 22 maggio 1978 prevede che la richiesta di interruzione di gravidanza, nei primi novanta giorni, avvenga per “seri motivi di salute fisica o psichica della donna” e, proprio per questo, la legge stessa prevede una riflessione, riflessione che può avvenire solo in un contesto di “contenimento psicologico” in cui vengano prese in considerazione tutte le difficoltà che porterebbero a interrompere la gravidanza stessa.
“Sono una consulente familiare; il mio compito non è certamente quello di volerla far pensare con la mia testa ma ascoltarla in modo attivo.”
Silvia è un po’ perplessa; le offro un cioccolatino e la guardo in silenzio ma anche in attesa. Prende fiato e, all’inizio faticosamente, comincia a raccontare:
“Ho ventiquattro anni, sono una studentessa universitaria, studio filosofia, e sono “fuori-corso” perché nel frattempo studio anche recitazione e mi piace fare teatro. Così tra le lezioni, le prove e gli spettacoli, sono in ritardo con gli esami dell’università. Questa cosa fa molto arrabbiare i miei genitori che non fanno nessuno sforzo per comprendere la mia vita.
Alla scuola di recitazione ho conosciuto un regista che, da subito, mi ha letteralmente affascinato; ci siamo frequentati e ne è nata una relazione amorosa”.
Silvia si blocca quasi per sentire l’effetto che fa su di me il suo racconto; lascio che sussista questo momento di silenzio perché lei stessa elabori i suoi vissuti.
Continua un po’ trafelata: “Così mi ritrovo incinta, alla settima settimana, e mi sono prenotata per abortire”.
“Una decisione definitiva da cui non si torna indietro! – ribatto – ha desiderio di parlarne?”
“Per i miei genitori, in particolare la mia mamma, sapere che aspetto un bambino da Sergio, sarebbe un colpo terribile e non voglio compromettere ulteriormente la nostra relazione. In fondo, mi sono detta, non è ancora formato e, poi, che vita l’aspetterebbe?”
Ecco siamo arrivati ai soliti luoghi comuni: “Non è ancora formato, che tipo di vita l’aspetterebbe, …”
Stiamo un attimo in silenzio, quasi per sentire l’eco delle sue parole, e poi le chiedo: “Ha già fatto un’ecografia?”
“Sì, ma non ho voluto guardarla.”
“E, secondo lei, come mai non ha voluto vederla?”
Silenzio, il silenzio delle cose importanti.
Mi sporgo un po’ in avanti e le domando se si sente di guardare una fotografia del bambino a quel tempo di gestazione e preparo il libretto di Lucia “La vita umana prima meraviglia” spiegando a Silvia che esistono fotografie del periodo gestazionale.
Un po’ rabbuiata mi risponde che è d’accordo ma la sento preoccupata.
“Silvia, va tutto bene; ha chiesto lei, da persona responsabile, di riflettere su ciò che sta facendo e, conoscere la verità, può essere solo positivo.”
Cerchiamo insieme la fotografia corrispondente alla settimana di gravidanza e, come sempre, sorprendentemente, si stampa sul viso la grande meraviglia di vedere fotografato un piccolissimo bambino.
“Mai, avrei immaginato che fosse già così formato!”
Il suo stupore mi fa tenerezza, le lascio il fascicolo in mano, aperto alla pagina che corrisponde ai due mesi di gravidanza, e ascolto la sua commozione.
Mi guarda con gli occhi umidi e soggiunge: “E’ vero, è un bambino piccolissimo ma completamente formato – e, subito dopo – ma se lo facessi nascere che tipo di vita avrebbe? E la mia vita?”
“Tutte cose che non ci è dato di conoscere in anticipo – tento di replicare – ma di una cosa sono certa: se questo figlio non nascesse, non mancherebbe solo alla sua vita, ma alla vita di tutti noi. Forse potrebbe essere il senso che lei sta cercando!”
Pensierosa e malinconica, mi guarda ma non mi vede; sento quasi “il rumore” dei suoi pensieri e delle sue emozioni: lei, il bambino che è suo figlio, Sergio, i suoi genitori, la sua scuola, la sua carriera.
Non osavo rompere quel silenzio ma, dopo qualche minuto, le dico: “Silvia, ci chiamiamo Centro di Aiuto alla Vita proprio perché cerchiamo di inventare un modo, possibilmente quello che serve, per sostenere oltre che a livello psicologico, anche materialmente le persone; infatti possiamo offrirle un assegno mensile per diciotto mesi, tutto ciò che serve in gravidanza, le “cose” del bambino se dovesse decidere di farlo nascere, il corso di preparazione alla nascita, il massaggio del neonato per stabilire una buona relazione con il bimbo, la possibilità del pediatra “amico”, …”
Sempre più sorpresa, riesce a dire: “Non mi sarei mai immaginata tutto ciò; ma perché lo fate?”
Le risposte importanti sono le più semplici, magari difficili da dire: “Lo facciamo perché crediamo che la vita debba essere accolta sempre e comunque.”
Sentivo che aveva quasi voglia di andarsene, di fuggire, davanti a quella verità indiscutibile; così mi siedo vicino a lei e le circondo le spalle con un braccio:
“Non abbia premura di decidere; possiamo rivederci una seconda volta e riparlarne.”
Quella seconda volta non c’è stata mai.
Di giorno in giorno aspettavo di sentirmi dire dalla segreteria che una certa Silvia chiedeva di parlare con me, ma non accadeva. Io non avevo alcun riferimento per ritrovarla e, anche se lo avessi avuto, non l’avrei mai utilizzato. Infatti, quando una persona a rischio di aborto volontario arriva da noi, non chiediamo mai il suo cognome e neppure il suo numero di telefono proprio per farla sentire pienamente libera di prendere la decisione che ritiene più conveniente per la sua vita, senza interferire.
Questo è un punto su cui ho riflettuto molto: chi sono io per sostituirmi alle persone? Chi sono io per svitarne la testa e avvitargliela nel senso che piace a me?
Sono una persona credente nella fede cristiana e, ogni volta che penso a queste cose, mi vado a rileggere il capitolo 3° della Genesi. Dio aveva dato ogni possibilità all’uomo, avvolgendolo del suo amore incondizionato e, in tutto questo, gli aveva donato anche la libertà di andare lontano da questo suo stesso amore.
Di più, l’uomo è la sua libertà; ciò lo contraddistingue da qualunque essere vivente, condizionato dai suoi innatismi a cui non può rinunciare e che determinano le sue azioni. L’uomo è colui che è stato fatto per scegliere di essere amico di Dio, per aderire volontariamente al suo progetto, progetto che può anche rifiutare. Poi penso che se Dio lo volesse, sarebbe certamente in grado di incenerire tutti gli ambulatori dove si praticano gli aborti, ma non compie nulla di tutto ciò.
Per molti giorni ho continuato a ricordare Silvia, ma non avevo alcun segnale da parte sua. Altre donne, altri colloqui, altri bimbi che aspettavano di venire alla luce, finché …
Finalmente, un giorno tra i tanti, a un “permesso?” ecco comparire Silvia, non da sola, ma con un bellissimo Tommaso in braccio, accompagnata anche dalla sua mamma, desiderosa di conoscermi.
“Volevamo ringraziare! – mi dicono un po’ incerte ed emozionate – e anche chiedere se possiamo regalare a qualche bimbo che nascerà, gli abitini che Tommaso non ha mai usato perché è nato cicciottello.” Un grande abbraccio ha fatto da conclusione a tutta questa bella storia a lieto fine.
La vicenda di Silvia, che non ha comportato nessun onere finanziario per il Centro di Aiuto alla Vita, mette però in risalto la grande opportunità del colloquio di riflessione, assolutamente irrinunciabile perché a volte risolutivo per la decisione di far vivere.
Non possiamo stringere tra le braccia il bambino non ancora nato, ma possiamo abbracciare la sua mamma, perché sperimentando una dimensione di accoglienza, possa sentirsi in grado di accogliere il suo bambino.
Fonte: Cultura cattolica