Ha destato in tutti sgomento, dolore, smarrimento, la notizia delle dimissioni del Pontefice. Qualcosa d’inaspettato, ma non estraneo ad una sua eventualità. Infatti, il Papa, nel libro intervista con Peter Seewald, Luce del mondo (2010), aveva ventilato questa possibilità, qualora lo stato fisico e spirituale avesse impedito al Vicario di Cristo di continuare a tenere fermo il timone della Barca di Pietro.
Su questa sua incapacità fisica ma soprattutto spirituale, interiore, ha concentrato la sua attenzione Benedetto XVI, nel dire, dinanzi ai Cardinali radunati in Concistoro, la sua volontà di «rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di S. Pietro». Qualcosa di completamente nuovo, ma per il bene della Chiesa, per ridarle un nuovo vigore «sia del corpo, sia dell’animo»; quel vigore diminuito nel Papa, tale da fargli riconoscere, in tutta umiltà, l’incapacità di amministrare il munus petrinum, quel servizio universale all’unità della Chiesa e all’annuncio del Vangelo di salvezza nel mondo intero.
Il Papa non teme il ludibrio, il giudizio del mondo, dinanzi ad un gesto che non nasce da un atto di viltà, da un gran rifiuto, ma da motivi più profondi, che hanno contribuito a debilitarlo soprattutto nell’animo. Una sorta di martirio spirituale.
Proprio su questo filo rosso martiriale si può ripercorrere l’intero pontificato di Benedetto XVI, che sin dai suoi primi sussurri ha conosciuto una resistenza e un’opposizione davvero inaudite. Nella celebrazione iniziale del suo ministero di successore di Pietro, invitò tutti i fedeli a pregare per lui, affinché avesse sempre avuto la forza di non indietreggiare davanti ai lupi. E di lupi ce ne sono stati, che hanno levato forti ululati, dentro e fuori la Chiesa. Soprattutto dentro.
Ciò che ci ha lasciato sgomenti, e che Benedetto XVI stesso ha sottolineato nel suo viaggio a Fatima (maggio 2010), è che la crisi oggi investe la Chiesa nel suo interno. Non si tratta solo di osservare una Curia sempre più sfilacciata e all’ombra degli intrighi, ma di vere e proprie resistenze dottrinali accanto a desistenze morali. Il vero nemico è il peccato nella Chiesa, ebbe a dire il Papa. E di questo nemico si fece valoroso combattente.
Essere nella Chiesa, ha ripetuto il Papa in diverse ordinazioni sacerdotali e anche episcopali, non significa mirare a un potere egemonico o carrieristico, usare la Chiesa come piedistallo per innalzarsi sugli altri e bramare il potere, il successo, quasi star dello spettacolo ecclesiastico, ma diventarne servi, lasciarsi condurre, come poveri strumenti, dalle mani del Signore. Essere in Cristo per la Chiesa, per gli altri. Benedetto XVI si presentò all’inizio come «un umile lavoratore nella vigna del Signore» e questa umiltà unita alla fermezza ha voluto sempre mostrare. Ora è logorato e rinuncia. Può sembrare arrendevolezza, sconfitta. Ma è sotto un’altra luce che dobbiamo guardare.
Il discorso di Ratisbona su fede e ragione con un accenno a Maometto, la remissione della scomunica ai quattro vescovi della FSSPX, lo scandalo della pedofilia, la dichiarazione di Pio XII come venerabile, furono alcuni motivi-chiave, utilizzati con astuzia per colpire direttamente la persona del Papa, fino a ipotizzare un possibile processo in tribunale per colui che fu definito “datore di lavoro” dei preti pedofili, mentre proprio l’allora Cardinale Ratzinger si era impegnato per il cambiamento e l’irrigidimento della legislazione disciplinare in materia di abusi sessuali.
Uno degli atti sicuramente più lungimiranti del suo ministero di Vescovo di Roma e di Pastore di tutta la Chiesa fu la promulgazione del Motu proprio Summorum Pontificum (2007), con il quale si dava a tutti i sacerdoti la possibilità di celebrare la S. Messa secondo il Messale del b. Giovanni XXIII. Quel gesto, che in verità mirava a «una riconciliazione interna nel seno della Chiesa», divisa proprio sulla percezione della liturgia e in definitiva sulla stessa teologia della Chiesa, trovò una fortissima opposizione, non ancora sopita. Si parlò di possibili spaccature ecclesiali, e invece esse erano già serpeggianti, ma per altre cose e ben gravi.
Per alcuni, per molti, la Chiesa inizierebbe con il Concilio Vaticano II e perciò tutto quello che c’era prima, la stessa S. Messa, sarebbe stato abolito per dare inizio al nuovo cattolicesimo. Sembra strano, ma di qui il sentore di una notevole crisi di fede: una S. Messa che dall’epoca di S. Damaso, di S. Gregorio Magno, fino al 1969 aveva alimentato la fede e la pietà, improvvisamente sarebbe diventata addirittura pericolosa. Perché? Cosa era successo? C’è senza dubbio una notevole componente che a noi poveri mortali sfugge, ma è tutto lì il domandarsi pensierosi quanto questo clima abbia influito sullo stato d’animo del Pontefice, spesso lasciato solo a dover dare ragione del suo operato. Ma con grande umiltà fece anche questo.
Quello di Benedetto XVI resta un grande pontificato, che, certo, ora apre una pagina nuova nella storia della Chiesa, tante domande nuove, tanti possibili scenari, ma che lascia i presupposti per una riforma che possa continuare a dare i suoi frutti. Una riforma della Chiesa, nel suo seno.
È lo Spirito di Dio che guida la Chiesa, di questo siamo certi. Le porte degli inferi non prevarranno: di qui la nostra serena fiducia. La Chiesa è di Cristo, è il suo Corpo.
Con questo però non nascondiamo un momento d’incertezze, anche mondiali. È sorprendente vedere quanto la notizia delle dimissioni del Pontefice abbia catturato l’attenzione mondiale, quasi a voler dire: e ora chi sarà per noi faro in questo oceano del mondo? A chi ci appiglieremo nei marosi della cultura relativista e permissivista? Anche i tanti nemici di Ratzinger avranno avuto un momento di esitazione. Così cresce la nostra fede: il Papa è il vicario di Gesù Cristo, è veramente l’unico punto di riferimento non solo per la Chiesa ma per il mondo intero. È colui che fa unità e che costruisce questa unità.
Quest’unità fu voluta sempre e senza compromessi nella verità. L’amore alla verità e la verità dell’amore, ragione e amore, fede e carità, sono gli assi portanti di questo magistero. Al di sopra di tutto, poi, Dio, l’annuncio di quel Dio vicino che ci ha svelato il suo Volto e abita con noi, il Dio-Amore. Quello di Ratzinger è stato un pontificato teocentrico.
Dicevamo di un filo rosso martiriale. La lectio divina tenuta a braccio da Papa Ratzinger, l’8 febbraio scorso, ne costituisce una sorta di sigillo. Diceva il Papa commentando la prima Lettera di Pietro:
«Penso che, andando a Roma, san Pietro […] si era ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cf. Gv 21,18). È una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma, certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse».
Il primato ha un contenuto martirologico. Una forma nuova, un’altra forma di martirio. È difficile, a primo acchito, coniugare questa profonda consapevolezza del nostro Pontefice e la rinuncia al ministero. Ma è proprio in quest’ottica che va letto non solo l’intero pontificato di Ratzinger, ma sicuramente anche questa ultima scelta: morire, colpito a morte, fino a non morire, e così portare quel frutto nuovo per il bene della S. Chiesa. È questo che veramente speriamo. Grazie Padre Santo!
Fonte: Libertà e Persona