Medjugorje 9/9/12. Omelia tenuta durante la S. Messa per la Festa dell’Esaltazione della S. Croce.
Fratelli e sorelle, il dolore, la sofferenza, la morte e la croce sono parte dell’esperienza di ogni uomo o, se non lo sono, prima o poi lo saranno. A nessuno è sconosciuta la sofferenza. Ciascuno, ma proprio ciascuno, possiede una esperienza della sofferenza.
Il dolore tocca ogni essere umano indipendentemente dalla sua appartenenza nazionale o religiosa, dalla chiamata o dal sesso: indipendentemente da qualsiasi mia opzione di vita o da qualsiasi visione del mondo, non posso sfuggire il dolore. La sofferenza può essere comunitaria o singola. Come la sofferenza fisica si può manifestare in modi differenti e consumare il corpo umano, così la violenza e la paura che vengono seminate nella società moderna possono distruggere non solo i singoli, ma anche un intero popolo.
La morte viene come ultima cosa, come ultima sofferenza, come termine anche della vita più tranquilla e più pacifica. Così è finita anche la vita non del più santo, ma della Santità stessa; non del più perfetto, ma della Perfezione stessa: così è finita anche la vita di nostro Signore Gesù Cristo. Essa è terminata come sofferenza, come dolore, come una grande ferita. Egli è finito crocifisso ad una croce e l’avevano proclamato il più grande malfattore ed il più grande fallito.
Nel mondo di oggi, fratelli e sorelle, l’affissione ad una croce non è più in uso come pena di morte e perciò si è perso il sentore e anche l’impressione di fronte ad un tal modo di morire. Oggi noi cristiani pronunciamo la parola “crocifissione” senza alcuna difficoltà e così diciamo anche che il nostro Salvatore è morto inchiodato ad una croce. Sembra che lo diciamo con facilità, tuttavia la crocifissione, al tempo di Gesù, era una delle forme più atroci di condanna.
La crudeltà dell’uccisione sulla croce consisteva nel fatto che il suo fine era provocare una morte più lenta possibile. Così il crocifisso moriva tra grandi tormenti e dolori e non solo: moriva per soffocamento, poiché il respiro veniva reso molto difficoltoso. Nostro Signore è morto di una morte così crudele e pesante e, se la morte in croce rappresenta la più grande crudeltà, Gesù morendo in croce ha mostrato che la bontà di Dio è più forte anche della più grande crudeltà. Se un uomo giusto finisce in croce, questo può essere causato solo dall’odio e dal male e non può essere frutto di una qualche casualità.
In questo senso nella sfida della croce, nella morte di Gesù in croce, hanno combattuto l’Amore misericordioso di Dio e la malvagità umana e naturalmente ha vinto l’Amore misericordioso di Dio, poiché si è donato fino alla fine. Proprio nella croce di Cristo si manifesta il culmine del donarsi di Dio all’uomo. Sulla croce l’Amore di Dio si mostra nella sua radicalità più totale: esso si dona, esso si esprime. Questa è l’ultima cosa che Dio può fare nella sua auto donazione e nel suo donarsi.
L’abbandono di Dio in Gesù sulla croce non è l’autodistruzione di Dio, ma la croce è l’espressione finale della sua fedeltà incondizionata alle promesse fatte a noi uomini. L’auto donazione di Dio nella croce di Gesù Cristo non è il segno di una qualche mancanza, come nel caso in cui soffriamo noi uomini. Per Dio la croce non è neppure una necessità o un dovere, come lo è presso di noi. Gesù sceglie liberamente la croce. La croce di Cristo, segno della sofferenza di Dio, mostra che Dio soffre in un modo divino: egli soffre nell’altro. La sua sofferenza è espressione del suo Amore libero. La sofferenza non colpisce Dio come noi, ma è Lui che in Gesù Cristo per il Suo Amore permette che la sofferenza lo colpisca. Lui non soffre a causa di un qualche difetto o di una qualche limitazione, ma la accetta e la sopporta per amore. Questo suo amore fa sì che Egli soffra. Così i Santi Padri dicono: “Dio è divenuto uomo per poter morire”. Ed aggiungono: “Affinché con la sua morte distruggesse la nostra morte”.
Così stanno le cose per ciò che riguarda la sofferenza di Dio, la croce divina, ma dove siamo noi uomini in tutto questo? Cosa accade con noi? Cosa accade con la nostra croce, con la nostra sofferenza? Prima di tutto dobbiamo sapere, fratelli e sorelle, che la nostra sofferenza, il nostro dolore, la nostra passione, la nostra croce non è la nostra maledizione, non è la nostra rovina, ma è, al contrario, un segno che siamo uomini e discepoli di Gesù Cristo. Infatti il discepolo non è più grande del Maestro: se il mio Maestro Gesù Cristo ha portato la croce pazientemente e ha permesso che la sofferenza lo colpisse, cosa posso aspettarmi dalla mia vita? Cosa posso attendermi da me stesso se non prendere la mia croce e andare avanti nella mia vita incontro a Gesù Cristo? Cosa vuol dire davvero Gesù con quelle parole: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”?
A volte queste parole di Gesù scorrono facilmente sulle nostre labbra quando dobbiamo consolare coloro che soffrono. L’invito alla sequela della croce, così caro tra i cristiani, può essere facilmente mal utilizzato e portarci a dire che la sofferenza è buona in se stessa e gradita a Dio. Sarebbe bene, fratelli e sorelle, pensarci bene due volte prima di dire ad esempio ad una donna sposata con un alcolizzato: “Cara signora, ora è questa la sua croce: guardi alla croce di Gesù e porti pazientemente la sua e sopporti i maltrattamenti”.
Ciò sarebbe troppo semplice, le cose non funzionano in modo così semplice: questo sarebbe indegno dell’uomo e quindi non sarebbe neppure degno di Dio. Lo è piuttosto scegliere la strada più difficile e intraprendere tutto ciò che è nelle mie possibilità per condurre il coniuge dedito al bere ed alla violenza ad un trattamento di guarigione e di formazione. Solo dopo che si è tentato tutto ciò che è possibile all’uomo, allora forse, come amico o come sacerdote, posso silenziosamente e cautamente – ma in ogni caso umilmente – indirizzare alla croce di Cristo.
E’ necessario distinguere la vera croce dalla falsa, la croce reale da quella presunta. Sembra che in questo noi cristiani siamo in un grande pericolo: a volte, infatti, presentiamo le nostre debolezze ed i nostri peccati come croci. Non è bene fare così e non è onesto, perché in questo modo attribuiamo a Dio un’ingiustizia. La croce viene da Dio, mentre il peccato e la debolezza umana non vengono sicuramente da Lui. Perciò il peccato non può essere una croce: il peccato è peccato e la croce e croce; il peccato è un male mentre la croce è una benedizione.
Quando qualcuno parla di sequela di Cristo tramite la croce in ogni circostanza, possibile o impossibile che sia, ci si deve domandare se egli non abbia forse mal compreso la croce di Cristo. Spesso cioè agiamo come se Dio si dovesse e si potesse mitigare solo con una terribile sofferenza, ossia solo se pendiamo dalla croce. Ci pensiamo simili a Dio solo tramite la croce e la sofferenza e definiamo tutto “sofferenza” e “croce”. Credere nella sofferenza è superbia, ma soffrire credendo in Dio è umiltà.
Infatti la superbia ci può dire solo che siamo abbastanza forti per soffrire e che la sofferenza è un bene per noi perché noi siamo buoni, ma forse Dio non vuole affatto questo nella nostra vita. Per questo diciamo che è necessario distinguere la vera croce da quella presunta. (…) Davanti alla vera croce, fratelli e sorelle, davanti alla sofferenza vera la cosa migliore è tacere poiché anche noi stessi sappiamo che essa finirà e terminerà solo quando si compirà il piano di Dio in cui quella sofferenza e quella croce sono contemplate e per il quale alla fine vengono portate.
Sia che lo vogliamo accettare o no, noi non comprendiamo né la croce né coloro che sono su di essa. Gesù non è venuto a togliere la sofferenza ed il dolore da questa terra, ma è venuto ed ha mostrato cosa sia la vera croce, come si accetta e come si soffre: in modo tranquillo e abbandonato per quanto si può, per amore verso Dio. Ma dobbiamo sapere che Dio non si aspetta da noi che siamo dei “superman”, che Dio non si aspetta da noi che non cadiamo né che non perdiamo la forza, ma si attende semplicemente che restiamo fedeli anche nella sofferenza e nell’impotenza.
Il cristiano non può accettare la sofferenza per niente, essa lo deve anche santificare. Niente diventa così facilmente non santo come la sofferenza. Se una sofferenza non è permessa da Dio, se non è nel piano di Dio, se una croce è presunta e non reale, essa mi rende un uomo duro e rigido. Se una croce proviene veramente da Dio, se c’è Dio dietro di essa, allora essa mi rende mite ed umile, semplicemente mi santifica. Nella croce della vita, in tutto ciò che in qualche modo nella mia quotidianità mi inchioda – malattia, povertà, malintesi, incomprensioni, solitudine, malvagità delle persone che mi circondano, ingiustizia ed infine la morte – tutto ciò per Cristo ed in Cristo diviene un luogo di incontro con Dio ed una sorgente di vita eterna, non solo per me ma per chissà chi altro ancora. (…).
Fratelli e sorelle, cosa ottiene chi rifiuta la croce? – si domanda Sant’Alfonso Maria De Liguori – e risponde subito che egli accresce solo il suo peso. Rifiutare una vera croce è rifiutare l’occasione di santificarsi e crescere nell’umiltà, nella mitezza e, alla fine, nella pazienza. Ciascuno porta la croce così come sa farlo. Non ci sono formule o soluzioni di vita da cui imparare a portare la croce. Come si impara a nuotare nuotando ed a camminare camminando, così la croce si impara portandola.
In nessun luogo della Sacra Scrittura Gesù ha dato una qualche risposta teorica alla sofferenza, al dolore, alla passione, alla croce. Proprio in nessun passo delle pagine della Sacra Scrittura c’è una sua spiegazione razionale e completa. Non c’è da nessuna parte neppure una lettera che sia la soluzione finale della sofferenza e della croce. La risposta di Gesù al dolore ed alla croce non sta nelle parole ma nell’Incarnazione. Egli non ci ha dato una risposta, si è fatto risposta. Gesù è la nostra risposta, o la nostra contro risposta, alla sofferenza e alla croce. Amen».
(Stralci dell’Omelia tenuta sul Krizevac il 9 Settembre 2012. Fonte: Radio “Mir” Medjugorje, traduzione dal croato)
Fonte: Informazioni da Medjugorje